
Quante volte lo abbiamo detto come mamme, zie, nonne, o qualsiasi altra figura che passa del tempo con un bambino che sta crescendo: “stai attento che ti fai male!”
Eppure, ogni volta che evitiamo un pericolo ad un bambino (a patto che non sia mortale ovviamente) per la nostra paura che si faccia male, quel bambino ha perso un’occasione per sperimentare che le sue azioni e/o disattenzioni hanno un effetto sul proprio corpo.
Tutte le volte che corriamo ad aiutare un bambino gli stiamo dicendo: “tu da solo non ce la fai!” “Hai bisogno di me, che sono adulto”, andando a creare una dinamica relazionale di dipendenza. E come potrà, crescendo, pensare che può farcela se riceve sempre un messaggio di questo tipo? Piuttosto cercherà nell’altro una figura che faccia per lui, o che decida per lui.
Ma quale è il compito di un genitore o di una figura educativa in generale se non quello di promuovere e creare autonomia? Sostenere il bambino perché faccia da solo?!
Io credo che spesso ce ne dimentichiamo, ma dobbiamo scrivercelo su un post it e attaccarlo sul frigo, sullo specchio del bagno, o in fronte:
IL BAMBINO DIVENTERÀ ADULTO
e perché diventi un adulto capace di superare le difficoltà, rendersi conto dell’effetto delle proprie azioni sugli altri è assolutamente necessario iniziare a farlo sperimentare, farlo sentire indipendente e autonomo, dal momento in cui nasce. Si proprio così, dal momento in cui nasce: a seconda della narrazione che sceglierò per parlare al mio bambino io creerò le strutture per l’indipendenza o per la dipendenza dalla figura adulta, getterò le basi per processi di autostima e autoefficacia, o al contrario, processi di inefficacia.
Di fronte ad una caduta possiamo rispondere: “Te l’ho detto tante volte di chiamarmi che ti aiuto!” oppure “Eh pazienza, sei caduto, ma ora puoi rialzarti e riprovare!”
Soffermiamoci sulla volontà di indipendenza che si manifesta nel bambino a partire dai 18 mesi, due anni.

Se noi genitori o figure educative sosteniamo quella spinta del “voglio fare da solo”, senza intervenire in ciò che sta facendo, ma semplicemente osservando, legandoci le mani e cucendoci la bocca, stiamo di fatto dicendo al bambino: “sei competente”, “Ci sono, ti osservo, ma non intervengo perché tu ce la fai”.
Quando? quando cercano di fare qualcosa e non riescono, quando vogliono vestirsi autonomamente, ogni volta che un bambino ha voglia di non essere aiutato e di sentirsi competente.
Capisco i tempi del mattino, la fretta…ma questa è una scelta educativa prioritaria: riservate ai bambini spazi in cui possono ascoltare e vivere quella voglia di autonomia e indipendenza. Riservate ai bambini spazi in cui il vostro tempo è finalizzato a sostenere la loro crescita identitaria.
I bambini hanno bisogno di esplorare, di manipolare, di conoscere il mondo e di avere adulti coraggiosi che si assumono il rischio educativo del “pericolo” per poterli fare crescere forti, sicuri.

Un bambino di 18 mesi gioca con la porta, ha scoperto che se la tocca si muove, la può aprire e la può chiudere, per lui è un momento di grande scoperta…istintivamente a qualsiasi adulto verrebbe la spinta a dire: “fermo con la porta che ti puoi fare male”, e in genere lo ripete finché non viene ascoltato, e se non viene ascoltato… seppur protestando, il bambino viene allontanato.
La mia domanda è: “E se si fa male?” Qual’è il problema? Per chi è il problema? È davvero meglio negare questa esperienza al bambino per la mia paura di adulto che al massimo faccia un pianto di 2 minuti e mezzo?
Il bambino può certamente farsi male con la porta (ricordiamoci che la sua forza a 18 mesi non gli farà di certo perdere l’uso della mano!!!) ma sarà l’esperienza a insegnarglielo e quando sarà abbastanza grande per avere una forza maggiore, sarà esperto e attento a non giocarci.
Inoltre scoprirà che l’ambiente richiede cautela e attenzione, diventerà attento al mondo circostante perché contiene in sé qualche pericolo: svilupperà i sensi e imparerà a percepire e riconoscere i pericoli intorno a sé (competenza molto utile soprattutto quando diventerà grande).
La sperimentazione dell’insuccesso (dalla caduta con la bici alla zip che non si chiude, l’acqua che fuoriesce dal bicchiere, ecc) permette al bambino di costruire strategie di risoluzione del problema. Di diventare sempre più competente, esperto. Se si corre a salvare si toglie al bambino la possibilità di sentire la sua spinta a farcela, si depotenzia il suo senso di autoefficacia.
La domanda principale io credo sia un’altra, ovvero: “adulto, cosa fa in te quell’esperienza di dolore? Senti di poterla sostenere oppure sei stato un bambino che veniva spesso limitato nel suo agire e che, in presenza di esperienze dolorose, gli adulti ti dicevano: Te l’avevo detto!!” Quel pianto veniva consolato oppure era necessario soffocarlo, insieme alla rabbia e alla frustrazione per un sostegno mancato?
Sono una mamma, sono molto umana, e per me all’inizio è stato davvero difficile mediare tra l’automatismo “stai attento!” e la cosa più utile per la crescita di mia figlia, ovvero osservare senza intervenire. Mi sono davvero dovuta armare di tanta intenzionalità.
“È mortale?” Questo per me è stato il parametro che mi ha fatto scegliere se agire o rimanere al mio posto, sempre osservando, sostenendo con lo sguardo.
E accogliendo quando ce n’è bisogno.
Compito dell’educazione non è sapere le cose
ma dotare i gli esseri umani degli strumenti per sviluppare proattività,
trovare un posto nel mondo,
diventare e sentirsi membri di una comunità.
Paola Nicolini