DELLA VITA E DELLA MORTE

Dai 3 ai 5 anni i bambini iniziano a porsi le prime domande relativamente la morte. E per noi adulti generalmente iniziano i primi imbarazzi. Cosa succede quando qualcuno non c’è più? Riusciamo a parlare ai bambini della morte? Quando ci diamo la possibilità di parlare della morte, onoriamo anche la vita che c’è stata prima. Parlare di morte è dunque parlare di vita. E parlare di vita comporta anche parlare della morte. 

Molte volte mi è capitato di situazioni in cui i bambini sono stati tenuti lontano dalla possibilità di partecipare ad un culto funebre, fatto in buona fede per preservare il bambino. Ma in realtà non lo stiamo aiutando. Stiamo perdendo l’occasione di dare senso a ciò che si vive. 

Francoise Dolto, psicoterapeuta francese, ha trattato spesso questo argomento con i genitori, ha chiesto loro di sostenere le domande dei bambini, non rifiutarle, di cercare le risposte, non evitarle. Alla domanda: “Perché si muore?” È possibile rispondere “Perché ha finito di vivere”. Poche parole, che soddisfano il sano bisogno del bambino di avere risposte. “Dopo la morte cosa c’è?” Ad ognuno la risposta secondo i propri valori, il proprio credo, ma non lasciamo che queste domande rimangano senza risposta. Se non le abbiamo possiamo onestamente rispondere: “non lo so, ma noi possiamo continuare a ricordare lo zio. Lo sai cosa diceva sempre?…”. Parliamo loro della bellezza di ciò che è stato vissuto, dei momenti condivisi, solo così potremo rendere quella vita immortale. “È andato via!” senza mostrare un corpo, un rito funebre, può indurre il bambino ad un grande senso di smarrimento, instabilità, rispetto alle figure che ama: non si può rifiutare la vita e non si può evitare la morte. A volte come adulti abbiamo la grande paura di affrontare questi discorsi, riconosciamoci piccoli di fronte ai grandi eroi senza paura: i bambini. Per loro invece è un evento del tutto quotidiano, perché la vivono attraverso la natura (foglie che cadono in autunno, per esempio), fanno esperienza quotidiana e diretta dei cicli di nascita e morte. Osserviamo la natura, le stagioni e ricolleghiamola alla nostra vita.

C’è un bellissimo cartone della Disney-Pixar, COCO, che parla del culto dei morti messicano in cui ogni famiglia vive in modo il ricordo di chi non c’è più: è proprio la vita di chi oggi ha terminato di vivere, che ci ha permesso di essere qui. Ricordiamo dunque i nonni sulla poltrona, le nonne che facevano i ferri, le torte delle zie, le partite a carte nei giorni invernali, ricordiamo e onoriamo coloro che ci hanno amato, cresciuti, i loro insegnamenti…perché quando una persona viene a mancare non è tanto l’eredità economica a farcela ricordare, ma le azioni che ha compiuto nella sua vita, le parole che ha donato, l’amore che ha condiviso. Portare questo nei nostri cuori, fare delle azioni che ci fanno ricordare chi amiamo ma che non c’è più, mantengono viva la memoria di quella persona e questo significa rendere immortale la sua vita. E questo per me è importante, per non dimenticare. E allora andiamo nei cimiteri, fermiamoci a raccontare di quanto rendeva speciale quella persona, di cosa ha fatto, delle cose divertenti che ha detto. Da poco tempo è venuta a mancare una persona a cui ero molto legata. Il suo fare materno mi ha sempre fatto sentire una persona scelta, attraverso la cura dei gesti e dell’ambiente in cui viveva, mi ha insegnato a circondarmi di bellezza, di semplicità.

A non strafare, ma ad avere cura delle cose per avere cura anche delle persone. Lei mi ha insegnato ad agire in virtù di un bene per tutti, non un guadagno individuale, ma un benessere collettivo. Mi capita oggi di camminare sotto i tigli di piazza Cavour, a Tolentino, di respirare quel profumo intenso e penso a lei, penso a lei ogni volta che sono vicino ad un tiglio, alle sue battaglie perché non venissero abbattuti, alle sue lotte per donare bellezza a tutti. Le sono grata e quando ci passo con mia figlia le parlo di lei, dei suoi occhi azzurri, dei suoi ideali, dell’esempio che ha rappresentato per me.

Ciao Antonella. 

Perché la morte è vita, luci di luce altrove.
(Dal film Coco)

HAI TUTTO E NON SEI MAI CONTENTO!

Vi è mai capitato di dire questa frase? E di sentirla?

A me è capitato e capita moltissime volte di pensarlo, di dirlo. Come mamma di una bambina di 3 anni è facile pensarlo, dirlo: “Non gli/le basta mai!”, “Ha tutto e vuole sempre di più!”

…e mi permetto di dirlo che non riguarda solo i bambini. Spesso lo pensiamo e lo diciamo anche nelle relazioni con gli adulti.

Ma cosa vuole realmente?

Veramente più abbiamo, più chiediamo, più vogliamo?

O forse chiediamo e vogliamo senza prima aver capito cosa vogliamo?

Parliamo dei bambini, che poi ogni discorso è riconducibile agli adulti.
È mattina, ore 7:30. Il bambino si siede a tavola e dice: “non voglio i biscotti, voglio lo yogurt!”.
Il genitore, che ha i minuti contati e nel frattempo sta svuotando la lavastoviglie, ci prova e dice: “Dai oggi ci sono i biscotti, domani lo yogurt. Mangiali che è tardi!”. Il bambino che non conosce ii tempo ed è seduto al tavolo da solo, ritorna alla carica e ci riprova: “Io non mangio, voglio lo yogurt!”. Il genitore, che nel frattempo è passato a lavarsi i denti e ha un tempo interno che scorre velocissimo, dice (con tono nervoso): “ok, però mangi tutto e veloce, ci siamo intesi?”, il bambino accetta, il genitore prende lo yogurt e lo porge al bambino…ed ecco che il bambino fa una nuova richiesta….e lì, in quel momento, il genitore pensa che sta per esplodere.

Oppure, è domenica, finalmente il tempo del riposo, la famiglia decide di andare a fare una passeggiata al mare: i genitori seduti su una panchina, guardano i figli che giocano al parco e si godono un po di relax. Passano 5 minuti ed eccolo: “mi dai 1€ che prendo una pallina?”, il genitore non ha voglia di discutere, è domenica, vuole solo riposare: “tieni” il bambino va e torna piangendo: “non volevo quella pallina, ne volevo un’altra!”. Il genitore temporeggia, cerca di distrarlo ma non molla, viene accontentato, perché il genitore vuole stare tranquillo. Torna, dopo due palline dobbiamo ritenerci soddisfatti, stiamo bene per 5 minuti poi…”ho sete, voglio il te”, poi “ho fame voglio il gelato” e dal te o il gelato si passa alla caramella e poi…in un’infinita serie di richieste che ci fa sentire sfiniti, al termine del quale, esausti, o ci alziamo spazientiti urlando: “basta torniamo a casa, non ti basta mai! Sei incontentabile!” Seguono pianti, urla, nervosismo crescente, conflitti tra i genitori. (Ho escluso l’ipotesi fornire uno smartphone così sta zitto! perché è una pratica che risponde al bisogno di attenzione con l’isolamento).

Che cosa è successo? Che cosa succede? Io la mia idea me la sono fatta sperimentando e osservando. E quando vedi che funziona, continui.

Le domande che mi hanno spinta a questa riflessione sono state?

  1. La richiesta è chiara, ma qual’è il bisogno? 
  2. Accontentare è la via più veloce per chiudere la questione?
  3. Se accontento ogni richiesta che mi viene fatta, a cosa educo il mio bambino?

Parto dall’ultima domanda, accontentare sempre i nostri figli significa educarli ad un mondo che dice SI, a tutto. È reale il mondo che gli sto presentando? Troverà sempre adulti pronti a soddisfarlo? E questo ha fatto nascere altre questioni, tra le quali: lo sto educando a rispettare e ad ascoltare i bisogni degli altri? La risposta è NO. Pertanto devo assolutamente sapere che questo modo favorisce lo sviluppo di un individuo incapace di leggere i bisogni altrui, totalmente centrato sui suoi bisogni consumistici. Ecco dunque che rispondo alla domanda due: NO!, perché non si chiude la questione, anzi ne apro di sempre nuove e poco coerenti (domanda 1) con il bisogno. Accontentare senza comprendere il bisogno reale significa perdere l’occasione di aiutare il bambino a leggere il suo bisogno. Spesso infatti quello che vuole il bambino è una vicinanza con il genitore, un’attenzione dedicata e totale a lui e le richieste accontentate perché cosi sto tranquillo non fa altro che educare al consumismo, quindi formare uomini e donne che consumeranno in maniera bulimica oggetti, prodotti, denaro senza assolutamente esserne consapevoli.

COSA FARE? 

Cari genitori cercate di educare alla frustrazione di ricevere piccoli NO, non date risposte automatiche, chiedervi se è necessario dire Si. Se la risposta è NO, provate a dirlo. MENO SI, MENO RICHIESTE. SE SO CHE MI DICONO NO A GELATI, PATATINE, FIGURINE, CELLULARE, SMETTO DI CHIEDERE. Sarà dura i primi giorni, ma vi assicuro che i benefici saranno su tutta la vita. 

LA MISURA DI CHI SIAMO.

Quando moriremo, la misura di quello che siamo stati nella nostra vita ci sarà data dai nostri figli, dagli adulti che saremo in grado di mettere nel mondo.

Don Luigi Verdi ha aperto con queste parole un incontro per famiglie nella quiete di un eremo in Toscana: eravamo tutti seduti, accaldati, attenti, attoniti.

Il modo in cui educhiamo i nostri figli ha un peso sulla società intera.

Che cosa significa questo?

Significa per esempio che se sono seduta a tavola, durante i pasti, cerco di evitare di usare il telefono o guardare la TV, ma mi faccio modello di convivialità: racconto la mia giornata, le cose che mi sono piaciute, le difficoltà che ho affrontato, in modo che i miei figli possano acquisire, in modo del tutto indiretto e involontario, le competenze sociali dello stare insieme.

Significa che di fronte ai cosiddetti “capricci” (ricordiamoci che i capricci non esistono) scelgo di non perdere la testa, anche se sono stanca, né di pretendere che mi si porti rispetto perché vengo da una giornata di lavoro che mi ha lasciato senza energia. Scelgo di guardare a mio/a figlio/a per il/la bambino/a che è, riconosco che anche per lui/lei deve essere stata una giornata difficile senza i suoi genitori, incastrato/a tra mille impegni e trasportato/a come un pacco da un’attività all’altra.
Decido di investire le mie energie per rimanere calma, accogliere quel corpicino agitato e far diventare le mie braccia contenitore in cui abbandonare tutte le fatiche del giorno. Cosi facendo so che sto insegnando la pazienza, l’accoglienza, doti necessarie per vivere in un modo fatto di persone in carne e ossa.

Significa che se decido di andare a cena fuori o in vacanza, non scelgo di spegnere mio/a figlio/a davanti uno schermo, ma lo tengo acceso cercando di scegliere una meta tranquilla, in cui può avere uno spazio esterno in cui correre e divertirsi, portandomi uno zaino in cui ho messo cose che possono incuriosirlo/a, accettando anche che di stare seduto a tavola non ne abbia nessuna voglia. In questo modo lo/la imparerà a riconoscere i bisogni dell’altro/a, a rispettarli.

Significa che non faccio diventare mio/a figlio/a un adempimento, un compito giornaliero da assolvere o un problema da gestire. Scelgo di eliminare il tempo speso in modo superfluo (social compresi – che peraltro mi privano di ogni volontà e mi rendono triste) perché voglio avere le energie per aiutarlo/a a trovare le sue soluzioni ai problemi che lo/la preoccuperanno. Scelgo di non essere spicciativa, perché voglio dedicargli/le l’attenzione che merita; scelgo di non avere fretta, perché la sua soddisfazione è importante. Lo farò in modo autentico, nello stesso modo in cui vorrei essere accolta io, perché so che il modo in cui io oggi accolgo la sua persona, i suoi pensieri, le sue emozioni e preoccupazioni, sarà il modo in cui domani accoglierà le sofferenze altrui. 

Significa che anche se faccio un lavoro che mi porta molte ore fuori casa, quando rientro invoco il tanto dimenticato diritto alla disconnessione per connettermi totalmente con i miei figli, il mio partner, il cane, la natura che mi circonda….qualsiasi essere vivente non virtuale. In questo modo ho la possibilità di educare i miei figli ad un modo di stare in casa, in famiglia, nelle relazioni, di vivere una sfera ON-LIVE in cui fare esperienza di vita reale.

Significa infine che cerco di vivere in modo gioioso, perché non posso desiderare che mio/a figlio/a sia felice se io genitore parlo di felicità, ma vivo costantemente incazz***.
Rifiuterò il giudizio, la menzogna, la critica nella mia quotidianità, sceglierò di concentrarmi su ciò che ho, sviluppando la gratitudine, quel senso di pienezza di una vita felice. In questo modo potrò diventare modello di una vita in cui sentirsi soddisfatti.

La felicità è una scelta, ogni giorno. Quanto più vivrò nella soddisfazione e nella gioia, tanto più darò ai miei figli il permesso di fare altrettanto.

Il bello di avere figli… è goderseli.

Pochi giorni fa ero al mare con le mie figlie.
Non potevamo fare il bagno già da un paio di giorni a causa del forte vento e della pioggia.
In quei giorni abbiamo scoperto che il mare può donare grandi tesori, offrire uno spazio relazionale, e la spiaggia può diventare un ambiente ricco di giochi, stimoli, opportunità.

Raccogliere i vetri che il mare, nel suo andare e tornare, rilascia sulla spiaggia.
Esplorarli, con la vista, il tatto.
Uno è più trasparente, l’altro meno.
Uno è più levigato, l’altro meno..
Provare a classificarli.
Per colore, forma.
Disporli in ordine di grandezza.


Gli occhi diventano strumento di osservazione, catalogazione.
Il bambino allena attraverso il gioco la concentrazione, la capacità di osservazione e discriminazione.

Bambino e adulto insieme, in una serie infinita di rilanci, impegnati a costruire momenti di relazione, a fissare ricordi che durante l’inverno possono donare tenerezza, calore.
Dopo l’osservazione si può passare alla sperimentazione, alla costruzione di nuovi giochi: strade, case, ecc.

Mi domando sempre se un gioco di quelli strutturati, acquistati in negozio possa fare tutto questo. Possa tenere impegnati bambino e adulto per un lungo tempo.

La natura si conferma il miglior parco giochi di sempre, il più ricco di materiale, il più bello da toccare e sperimentare, il più emozionante da guardare, il più stupefacente da scoprire.

E allora cari adulti, buon divertimento, scoprite nei vs figli degli ottimi compagni di viaggio, lasciatevi stupire da ciò che vi circonda, ci sono infinite possibilità di esplorazioni: foglie, legnetti, conchiglie, pini, un materiale unico e sempre diverso per ogni stagione.

Buon divertimento.

PS: queste occasioni che io chiamo avventure ed esplorazioni aiuterà vs figlio/a ad imparare divertendosi, a creare un legame speciale con voi, e saranno proprio i momenti di condivisa esplorazione e scoperta a farvi ricordare, ad imprimere nella loro memoria la vs presenza e a ripeterla quando saranno genitori a loro volta.
PS2: Se ci capita di rivolgerci ai ns figli con frasi tipo: “Non mi disturbare”, “Sei una scocciatura!”… fare esperienze di questo tipo li aiuteranno a sentirsi importanti, speciali per voi.

ESSERE VISTI, SENTIRSI AMATI

I bambini hanno bisogno di essere guardati, per lungo tempo. Qualcuno mi ha chiesto: “cosa hai provato quando è morta tua moglie?” Ho risposto: “Per me è cambiata la vita”, perché dopo sono sopravvissuto, non mi è interessato granché restare al mondo. E tuttora non mi interessa granché. La cosa più dolorosa è la perdita del testimone. Tu quando sei al mondo hai bisogno di essere guardato da qualcuno. Quante cose fai perché uno ti guarda? Lo sguardo è il primo processo di socializzazione: Il bambino appena comincia ad aprire gli occhi e incontra lo sguardo della mamma, la prima cosa che fa è ridere perché esce dalla solitudine, entra nella socializzazione. Noi viviamo se qualcuno ci guarda, se qualcuno ci fa da testimone, quando non hai più nessun testimone puoi anche avere sei mila persone che ti applaudono, ma non ti importa niente. I bambini allora bisogna guardarli, mentre giocano, mentre guardano un film; e, mentre lo guardi, chiedigli cosa prova, cosa pensa mentre fa la sua cosa, in questo modo non lo lasci alla sua cosa, alla sua solitudine. Guardandolo puoi accorgerti dei suoi progressi, e li riconosci. Questo lo aiuterà a farne altre mille di passi, per il solo fatto di essere gratificato dallo sguardo”. Umberto Galimberti.
È dall’ascolto di queste parole, che esprimono una verità tanto semplice quanto scontata, che nasce la riflessione di questo mese, che è il primo di un nuovo anno. In quest’epoca in cui di domandiamo spesso che effetto avrà sulla vita psichica dei bambini essere circondati da persone a cui è nascosto il sorriso, io rilancio ricordando che abbiamo lo sguardo. 

Quando il nostro sguardo è distratto, manca.
Se è impegnato a osservare lo scorrere di uno schermo inevitabilmente non può testimoniare la vita che si manifesta davanti ai nostro occhi. Se è impegnato a “catturare” un’immagine da inserire in un profilo social, dimentica la sua funzione reale ovvero di riconoscere e rimandare al bambino ciò che sta accadendo.
Allora dopo aver catturato, sarà importante restituire (da 0 a 99 anni): “Vedo che sei impegnato a costruire una torre molto alta”, oppure “vedo che sei riuscito a fare questa cosa molto difficile…” Faccio esempi a caso, ma necessari per comprendere il tipo di feedback di cui ha bisogno il bambino/adolescente che non è il “bravo!” ma è il: “con il mio sguardo ti vedo, per me esisti, riconosco i tuoi cambiamenti, la tua evoluzione, ti sostengo”.

Perché è così importante? Il bambino/l’adolescente nel momento in cui viene guardato, e quello sguardo produce un pensiero nell’adulto che si trasforma in parole, percepisce di esistere. E percepisce che la sua esistenza è vista da qualcuno. E questo, inevitabilmente, permette di sentirsi parte di una relazione, di sentirsi amati. 

Care mamme che “approfittate” del momento in cui allattate per controllare le notifiche sul cellulare, cari genitori che incollate il vostro sguardo sui social in cerca di notifiche (ovvero di essere guardati da qualcuno) e non prestate attenzione al fatto che il vostro bambino ora sa spingersi sull’altalena da solo, cari individui che cenate con il cellulare sul tavolo per controllare se qualcuno vi cerca, cari tutti, riconosciamo che fisicamente siamo con i nostri figli, con i nostri affetti, ma che in realtà il nostro corpo sta dicendo: “sono qui ma vorrei o mi rendo disponibile ad essere altrove con qualcun altro”.

Per crescere, e aggiungerei, per vivere, abbiamo bisogno che l’altro (il genitore, il partner, l’altro in generale) sia nella relazione: quando parliamo abbiamo bisogno di essere ascoltati con gli orecchi, ma anche con il corpo, con gli occhi.
Non possiamo ascoltare se stiamo facendo un’altra cosa.

Quando una persona ha bisogno di parlarci, richiede la nostra attenzione e gli diciamo: “tu intanto parlami, che io ti ascolto” (e intanto lavi i piatti), oppure “tu dimmi, intanto rispondo un attimo a questa persona” stiamo dicendo all’altro: “ti ascolto ma non sei così importante per me da darti uno spazio esclusivo”.

Mi piacerebbe che questo articolo suscitasse in ognuno di noi la volontà di fare un piccolo esercizio: creare uno spazio esclusivo per le relazioni significative. Se siamo a cena, spegniamo le suonerie dei cellulari e dimentichiamoli per mezz’ora in un cassetto. Se un bambino ci sta parlando diamogli tutta la nostra attenzione, il nostro sguardo. Quello sguardo è l’unico strumento che abbiamo per farlo sentire amato, e quella certezza dell’amore lo farà crescere forte e sicuro. 

OCCHI PER VEDERE

Ognuno di noi ha due occhi, due orecchi, due mani, ma quanti sanno vedere, ascoltare, toccare?

In questo ultimo anno che sono rimasta a casa mi sono dedicata a me, alla mia famiglia, alla preparazione di un nido che sapesse accogliere.
…ma non ho smesso di essere insegnante. E così ho approfittato di questo tempo per studiare, attività che mi piace molto ma che mi è difficile nella quotidianità, per tanti motivi, che sono gli stessi che non permettono a ognuno di noi di dedicarci a ciò che amiamo: ritmi serrati, lavoro, famiglia, ecc.

Sospendere le mie attività lavorative mi ha permesso quindi di dedicarmi allo studio, di spolverare la mia cassetta degli attrezzi, selezionare ciò che c’era, eliminare ciò che ingombrava per fare spazio a qualcosa di nuovo.
L’ho rifornita di strumenti posseduti ma dimenticati, di domande mai poste, di riflessioni che mi stanno spingendo verso un modo di fare l’insegnante che mi piace sempre di più, fatto di scoperta, di domande, di sentire che non è solo con le orecchie, di guardare che non è solo vedere.

Mi sto dunque dedicando all’approfondimento del Metodo Munari attraverso una collana di laboratori tematici creata in collaborazione con l’Associazione Bruno Munari. I testi mi stanno aiutando a capire, ad approfondire ma soprattutto mi stanno donando uno sguardo nuovo sul mondo.

Ecco allora che ieri passeggiavo in campagna e osservavo la natura intorno a me, e mi sembrava di non averla mai vista.
E sono nate in me tre riflessioni: la prima è la constatazione di quale sensibilità e profondità d’animo caratterizzasse l’uomo Bruno Munari. Perché tutti guardiamo ma lui non solo ha visto, ha avuto una grande visione che ancora oggi stupisce.
Poi ho pensato a quanto sia importante come adulti avere quello sguardo per educare i bambini (e quindi i nuovi adulti), per diventare modelli di come posare i propri occhi in modo attento su ciò che ci circonda, per scoprire la bellezza, l’ordine naturale delle cose.

Raccogliere un sasso e buttarlo nel fiume sarà allora un’esplorazione unica: porre attenzione alla sensazione sulla mano del sasso raccolto, differenziare i pesi tra pietre diverse ma apparentemente simili, scorrere la loro superficie . Provare a sentire il tipo di sensazione che ne scaturisce: piacevolezza, fastidio… Gettare il sasso nel fiume diventa poi l’occasione per osservare l’effetto delle pietre che cadono in acqua… e se buttiamo un bastoncino di legno? Cade nello stesso modo? Perché?

Tutto può sembrare così apparentemente sciocco, superficiale ma per un bambino prendere un sasso e buttarlo in acqua è molto diverso da prendere un sasso, essere accompagnati a osservare, metterci le parole per descrivere e sperimentare, buttarlo in acqua, e di nuovo osservare e riflettere.
Accompagnare i bambini in questa osservazione, con il giusto tempo e silenzio, permette a ciascuno (adulto e bambino) di essere nel mondo in maniera presente, di passeggiare guardando ciò che ci circonda, di vivere un’esperienza totalmente aderente al qui ed ora che ha carattere di infinito.

Una passeggiata nella natura può diventare un’esperienza unica di disconnessione dal mondo esterno per connettersi al momento presente, a ciò che ci circonda facendoci percepire tutt’uno con la natura.
È così che mi sono sentita ieri mentre guardavo il cielo, ascoltavo lo scorrere dell’acqua del fiume, guardavo gli alberi… Mi sembrava fosse la prima volta.

Quando ho guardato questo albero con grande stupore ho ricordato il libro dedicato alla Natura:Per disegnare un albero basta disegnare una Y, alle due estremità tracciare altre due Y e così via, creando ramificazioni”.

Eh già! tante Y fanno un albero. Ho 41 anni e ho guardato questo albero per la prima volta. Mi è venuta una gran voglia di tornare a casa e provare a disegnarlo, scoprire che non è poi così difficile disegnare un albero invernale, che potevo smetterla con quella serie infinita di alberi con la chioma verde. Perché la natura risveglia, la relazione con lei dona entusiasmo.
Se tutto questo accade in me adulto, chissà cosa succede nell’animo di un bambino?!

Sostenere i bambini a vivere esperienze nella natura, stimolare la loro curiosità attraverso domande, formulazione di ipotesi, può aiutarli a diventare curiosi, attenti, a promuovere una sensibilità e cura nei confronti della grande madre Natura.
Il Pianeta ha bisogno di cittadini e cittadine che abbiano gli occhi per guardare, una sensibilità per porsi domande, un cuore per amare la natura che li circonda, un sentimento e azioni di cura per preservare la bellezza.
Compito degli adulti che mettono al mondo i figli è proprio questo: promuovere la nascita di sentimenti e azioni che vadano in questa direzione.

Cari adulti diamoci il tempo di poter fare queste esperienze con i nostri figli, siamo sempre di corsa, ma per andare dove?
Alla fine della nostra vita non conteranno i soldi accumulati, saranno le relazioni a scaldarci il cuore, a farci sentire vivi.
Inutile costruire gabbie d’oro se poi non diamo da mangiare all’uccellino che c’è dentro.
Spegniamo il telefono (viviamo il lusso della non reperibilità), riserviamo ai bambini il giusto tempo, che è il tempo lento, di far nascere in loro le domande, le curiosità… evitiamo di dare risposte, invitiamo a sperimentare.

Facciamoci insegnare dai nostri figli a vivere le esperienze in modo totalmente presente al qui ed ora, divertiamoci con loro.
Facciamo come adulti un passo indietro e facciamo fare un passo avanti al nostro bambino interiore, prendiamoci cura di lui e ci prenderemo cura dei nostri figli.



Vi auguro tante avventurose scoperte.

A come amore

In questo giorno in cui si celebra l’amore, in ogni forma, condivido una poesia che mi ha colpito, perché spesso siamo coppia ma rimaniamo due individui in coppia, non riuscendo a passare al “noi”.

E questo noi è qualcosa di grande, di importante che non capita a caso ma si costruisce ogni giorno, quando si abbandona il “io sono cosi…” per diventare qualcosa in espansione, che non si ferma a quello che è dato, ma si trasforma, cresce.
È una scelta.

Se questo è amore, mi dico. Ma sì,
questo è l’amore che conosciamo. Ora.
Amore appiccicato, che incolla
quel poco di ala modesta sulla schiena.
Amore legato. In cui si ripete la solfa
del tu e dell’io. Non siamo capaci
di essere insieme acqua e moto,
sale e onda, unica impresa spettacolare.
Come il mare laggiù, lo vedi?

Se questo è amore, mi dico. Mariangela Gualtieri

Oggi auguro ad ogni anima di abbandonare la paura di perdere un po di se stessa per guadagnare il noi, per costruire un ponte verso l’altro senza il timore di non riconoscersi più.
Che sia oggi non solo il giorno per celebrare ma anche per scegliere e creare.

ESSERE VISTI, SENTIRSI AMATI

I bambini hanno bisogno di essere guardati, per lungo tempo.
Qualcuno mi ha chiesto: “cosa hai provato quando è morta tua moglie?”
Ho risposto: “Per me è cambiata la vita”,
perché dopo sono sopravvissuto, non mi è interessato granché restare al mondo.
E tuttora non mi interessa granché.
La cosa più dolorosa è la perdita del testimone.
Tu quando sei al mondo hai bisogno di essere guardato da qualcuno.
Quante cose fai perché uno ti guarda?
Lo sguardo è il primo processo di socializzazione:
Il bambino appena comincia ad aprire gli occhi e incontra lo sguardo della mamma,
la prima cosa che fa è ridere
perché esce dalla solitudine, entra nella socializzazione.
Noi viviamo se qualcuno ci guarda, se qualcuno ci fa da testimone,
quando non hai più nessun testimone puoi anche avere sei mila persone che ti applaudono, ma non ti importa niente.
I bambini allora bisogna guardarli,
mentre giocano, mentre guardano un film;
e, mentre lo guardi, chiedigli cosa prova, cosa pensa mentre fa la sua cosa,
in questo modo non lo lasci alla sua cosa, alla sua solitudine.
Guardandolo puoi accorgerti dei suoi progressi, e li riconosci.
Questo lo aiuterà a farne altre mille di passi, per il solo fatto di essere gratificato dallo sguardo”. Umberto Galimberti.


Ma quanto è semplice questa verità? Scontata! Eppure queste parole hanno avuto un grande effetto in me. In quest’epoca in cui di domandiamo spesso che effetto avrà sulla vita psichica dei bambini essere circondati da persone a cui è nascosto il sorriso, io rilancio ricordando che abbiamo lo sguardo. 

Quando il nostro sguardo è distratto, manca. Non c’è.
Se è impegnato a osservare lo scorrere di uno schermo inevitabilmente non può testimoniare la vita che si manifesta davanti ai nostro occhi. Se è impegnato a “catturare” un’immagine da inserire in un profilo social, dimentica la sua funzione reale ovvero di riconoscere e rimandare al bambino ciò che sta accadendo. Allora dopo aver catturato, sarà importante restituire (da 0 a 99 anni): “Vedo che sei impegnato a costruire una torre molto alta”, oppure “vedo che sei riuscito a fare questa cosa molto difficile…”
Faccio esempi a caso, ma necessari per comprendere il tipo di feedback di cui ha bisogno il bambino/adolescente che non è il “bravo!” ma è il: “con il mio sguardo ti vedo, per me esisti, riconosco i tuoi cambiamenti, la tua evoluzione, ti sostengo”.

Perché è così importante? Il bambino/l’adolescente nel momento in cui viene guardato, e quello sguardo produce un pensiero nell’adulto che si trasforma in parole, percepisce di esistere. E percepisce che la sua esistenza è vista da qualcuno.
E questo, inevitabilmente, permette di sentirsi parte di una relazione, di sentirsi amati. 

Care mamme che “approfittate” del momento in cui allattate per controllare le notifiche sul cellulare, cari genitori che incollate il vostro sguardo sui social in cerca di notifiche (che poi equivale a essere guardati da qualcuno) e non prestate attenzione al fatto che il vostro bambino ora sa spingersi sull’altalena da solo, cari individui che cenate con il cellulare sul tavolo per controllare se qualcuno vi cerca, cari tutti, riconosciamo che fisicamente siamo con i nostri figli, con i nostri affetti, ma che in realtà il nostro corpo sta dicendo: “sono qui ma vorrei o mi rendo disponibile ad essere altrove con qualcun altro”.

Per crescere, e aggiungerei, per vivere, abbiamo bisogno che l’altro (il genitore, il partner, l’altro in generale) sia nella relazione: quando parliamo abbiamo bisogno di essere ascoltati con gli orecchi, ma anche con il corpo, con gli occhi.

Non possiamo ascoltare se stiamo facendo un’altra cosa. Quando una persona ha bisogno di parlarci, richiede la nostra attenzione, se gli diciamo: “tu intanto parlami, che io ti ascolto” (e intanto lavi i piatti), oppure “tu dimmi, intanto rispondo un attimo a questa persona” in realtà le stiamo dicendo all’altro: “ti ascolto ma non sei così importante per me da darti uno spazio esclusivo”.

Mi piacerebbe che questo articolo suscitasse in ognuno di noi la volontà di fare un piccolo esercizio: creare uno spazio esclusivo per le relazioni significative.
Se siamo a cena, spegniamo le suonerie dei cellulari e dimentichiamoli per mezz’ora in un cassetto. Se un bambino ci sta parlando diamogli tutta la nostra attenzione, il nostro sguardo. Quello sguardo è l’unico strumento che abbiamo per farlo sentire amato, e quella certezza dell’amore svilupperà in lui sicurezza, forza, coraggio, qualità necessarie per diventare adulto e camminare nel mondo.

Lo sguardo dona all’altro la percezione di esistere. Di esistere per noi.

Possiamo avere tutti i mezzi di comunicazione del mondo, ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo dell’essere umano.
(Paulo Coelho)

I buoni propositi: esercizio quotidiano.

Sempre più spesso ascoltiamo alla radio, o leggiamo sul web o nei vari blog, l’importanza di chiudere un anno facendo un bilancio e affacciarsi al nuovo dotandosi di una lista di buoni propositi, o nuovi progetti.

Io negli anni passati ero davvero più diligente, svolgevo i miei compiti l’ultima settimana di dicembre, scrivevo su un foglio le cose di cui ero grata dell’anno appena trascorso e scrivevo, in 10 punti, i miei obiettivi dell’anno successivo.

È stato sempre sconvolgente per me leggere, a fine anno, la lista compilata all’inizio, perché non solo ritrovavo realizzato tutto ciò che avevo desiderato, ma anche di più.
E senza nemmeno averlo pensato.

La capacità di focalizzare gli obiettivi, determinerà il tuo futuro.
Più sarai capace di focalizzare e concentrare la tua attenzione su quello che Vuoi (e non su quello che non vuoi), più spingerai la tua mente nella giusta direzione. (Giancarlo Fornei)

Puoi approfondire le riflessioni legate ai desideri e le modalità in cui formularli in questo articolo.

Ma cosa succedono a queste liste? Cosa succede a quegli propositi che richiedono un cambiamento importante in noi, come li gestiamo?

Fissiamoli bene i nostri obiettivi, cerchiamo di essere realisti, domandiamoci cosa siamo disposti a fare e dopo averli scritti, riletti, tenuti… arriva il bello!

Eh si, perché arriva il momento in cui dobbiamo fare in modo che le intenzioni coincidano con le azioni. Come fare?

Innanzitutto smettiamo di dire: “Da domani inizio…”. Perché aspettare domani?
Inizia subito! non c’è momento migliore per iniziare di ora.
Il peggior nemico della volontà è il posticipare. L’azione è qui ed ora.

Prova poi a scrivere qualche post-it da attaccare in casa con qualche frase che può aiutarti a focalizzare i tuoi obiettivi, a ricordarti che devi agire.

Agisci con coerenza oggi, domani, dopo domani e fallo per 21 giorni, questo è il tempo che serve alla mente perché un nuovo comportamento diventi abitudine. Quando ciò accadrà potrai rilassarti, il tuo obiettivo si sta per realizzare, perché tutta la tua persona, la tua energia, ha agito nella direzione del desiderio… trasformando la realtà.
Per me ha sempre funzionato, ma è vero che per 21 giorni bisogna essere saldi, tenaci, non mollare mai.

Devi imparare a scegliere i tuoi pensieri, proprio come ogni giorno scegli i vestiti da mettere. È in tuo potere. Se ti piace tanto avere il dominio della tua vita, lavora sulla mente. È l’unica cosa su cui puoi tentare di esercitare un controllo. Il resto lascialo perdere. Se non domini i tuoi pensieri, sarai sempre nei guai.
( Elizabeth Gilbert)

Non credo nelle lunghe liste, nei grandi cambiamenti.
Credo piuttosto nelle liste composte di pochi punti, ma realizzabili.
Credo nei cambiamenti piccoli, ma praticabili.
Credo nel potere personale di poter trasformare la nostra vita in qualcosa di meraviglioso.
Ma bisogna agire oggi, e non può farlo nessuno all’infuori di te stesso.

Buon anno.

IL TEMPO DELL’AVVENTO

Aspetto il mare, lo aspetto a riva
Aspetto il tuffo di un’onda viva
Aspetto il sole sopra una foglia
Aspetto un fiore sulla mia soglia
Aspetto giochi, aspetto musi
Aspetto un bacio ad occhi chiusi
Aspetto incanti ad occhi aperti
Aspetto te, che li hai scoperti.

Canti dell’attesa, ed. Il leone verde piccoli

Dicembre è indubbiamente uno dei periodi che richiama l’attesa. Quella del Natale: i bambini, gli adulti che rivedono nei bambini la magia dello stupore, i cattolici, gli atei, gli agnostici. Quasi ogni famiglia attende il 25 dicembre con un calendario, di dolcetti, filastrocche o piccole sorprese… ciò che conta è l’attesa, la scoperta, almeno fino a Natale.

Ma le attese non sono solo quelle di Natale. Ci sono attese tutto l’anno, che durano molti anni. E non sempre i giorni sono scanditi da cioccolate o piccole sorprese. Spesso il tempo dell’avvento personale è cadenzato da passi pesanti, difficili, impazienti.

Ah quanta attesa prima dell’attesa!
Penso soprattutto ai progetti di genitorialità, alle maternità e alle paternità che tardano ad arrivare, a tutte quelle storie di donne e di uomini taciute, temute, che in una società performante non sempre trovano spazio. Perché una coppia che non riesce ad avere figli si sente un pò rotta, ma non sa dove.

Come viviamo i nostri avventi personali? Abbiamo la stessa fiducia che riponiamo nel fatto che Natale di certo arriverà?

Pazienza non significa sopportare passivamente, ma essere tanto lungimirante da confidare nell’esito conclusivo di un processo. Cosa significa pazientare? Significa guardare la spina e vedere la rosa, guardare la notte e vedere l’alba. Impazienza significa essere tanto miopi da non riuscire a vedere il risultato.
Elif Shafak

È un tempo strano quello dell’attesa, di qualcosa che desideri ma non sai se avverrà. Richiede pazienza, fiducia, lucidità…ah quanto siamo deboli di lucidità. Che poi mentre scrivo penso che il termine “lucidità” ha la stessa radice di luce, quella che serve per illuminare il mondo intorno a noi, ma soprattutto dentro di noi.
Una luce che richiama i termini di consapevolezza, crescita, senso, condivisione, dolcezza, tenerezza, perdono.

È questo il tempo per prendersi cura di noi stessi, delle nostre ferite. Ricercare il senso di quella paternità o maternità, le motivazioni che ci spingono a volere un figlio, a domandarci che tipo di genitori vorremo essere…e iniziare a esserlo.
Se vissuto con un moto interiore dell’accoglienza, e non della lotta, può diventare il momento migliore per noi, quello che ci può mettere sulla strada del cambiamento, della trasformazione, per incontrare il figlio o la figlia che la Vita vuole per noi.

Poi c’è il tempo del desiderio realizzato. Oh quanta emozione nella possibilità di sentirsi pieni di vita, pieni di felicità. Ma quanto riusciamo a vivere questo tempo in modo pieno, onorando quell’attesa estenuante che a tratti pensavamo interminabile? Siamo in grado di testimoniare la bellezza di ciò che stiamo vivendo oppure questo meraviglioso momento deve trovare uno spazio nell’agenda, in una routine fitta di impegni che ci fa giungere agli ultimi giorni “senza nemmeno essercene resi conto”?

Sto incontrando molte donne che, dopo aver percorso strade impervie e interminabili, dolorose, faticose, a livello fisico ma soprattutto psicologico, riescono a realizzare il loro desiderio di maternità, diventando nido per l’anima che li ha scelti ma che, nonostante la sofferenza e la fatica, non si danno il permesso di viverlo, perché una società performante le vuole lavoratrici, professioniste, multitasking. Perché a queste richieste perfomanti donne non riescono ad anteporre se stesse e il proprio bisogno di fare spazio o non riescono ad accettare che sono sostituibili.

Ogni donna vive una maternità personale, non esiste modalità migliore di un’altra, esiste però la maniera migliore per ciascuna di noi.
Interroghiamoci sulla modalità migliore per noi, che ci consenta di vivere pienamente ciò che abbiamo desiderato. Cosa ci fa sentire felici?

Chi siamo? Siamo quello che facciamo? No, siamo molto di più.
Siamo quello che pensiamo, quello che sentiamo, quello che agiamo. E quando una donna desidera diventare nido, è in quell’istante che diventa madre.

Diventiamo madri nel momento in cui desideriamo fare spazio nella nostra vita ad un altro IO che diventa NOI. Lo siamo nel momento in cui la nostra attenzione, il nostro desiderio è rivolto ad un progetto più grande di amore, che non si realizza nel figlio che nasce ma nella società intera.

Stiamo per mettere alla luce un individuo che vivrà in un mondo fatto di relazioni, di partecipazione. La sua capacità di starci adeguatamente dipende da come è stato atteso a sua volta, da quali occhi lo hanno riconosciuto, molto tempo prima di essere visto.
Arrivare alla nascita con un corredo pronto, una camera arredata, non ci fornisce gli strumenti per accogliere quell’individuo che ci ha scelti come genitori. Dobbiamo dotarci degli strumenti del mestiere del genitore se vogliamo diventarlo veramente, dobbiamo metterci nella disponibilità di lasciarci trasformare ogni giorno, se vogliamo rendere l’arrivo di questo ospite tanto atteso un momento unico, irripetibile, di grande consapevolezza e pienezza.

Durante la mia prima gravidanza mi regalarono un libro, che ho poi consigliato e regalato a molte amiche e donne che ho incontrato, per sostenerle nel viaggio dall’essere donna e moglie all’essere anche madre. Io non so amo approcciarmi in modo improvvisato alle situazioni e sarò sempre grata a quella amica, sorella, che mi ha permesso di agire in modo intenzionale, non sprovveduto, integro nella relazione con mia figlia.

Il testo di Tracy Hogg può essere un sostegno nella lettura di un linguaggio a cui non siamo abituati. La scrittrice che ha osservato i neonati nella sua esperienza come professionista, condivide non solo alcune strategie per fronteggiare i momenti di crisi, ma allena ad un metodo che può permettere ai genitori di sentirsi calmi e sereni nel gestire il pianto di un bambino che è una delle situazioni che mette maggiormente in crisi un adulto.
Ebbene sì! Difficile a credersi, ma è proprio così!

Vi lascio a questo mese di attesa e magia, augurandomi che ogni attesa può diventare un tempo propizio magico, in cui, alla fine, ciò che ho imparato è molto più di ciò che ho sofferto, e ciò che vivo è molto più di ciò che avrei potuto vivere.

Non preoccuparti di dove ti porterà la strada.
concentrati invece sul primo passo.
È questa la parte più difficile, e inquietante questo consiste la tua responsabilità.
Una volta fatto quel passo, lascia che tutto vada dove deve andare, il resto verrà da sé.
Non seguire la corrente. Sii tu la corrente.

Elif Shafak, Le quaranta porte.

Sto scrivendo perché ho vissuto tutto questo, vorrei che ogni donna e ogni uomo possano vivere il loro viaggio di attesa con la fiducia che il dolore non è sprecato, che la Vita non ci abbandona e che tutto ciò che spesso cerchiamo fuori lo possiamo trovare molto più velocemente se guardiamo dentro di noi.

Con amore, Laura