#VITEASSURDE

È assurda la vita di chi ha incontrato Padre Gabriele Pedicino.

Per venti anni in servizio presso il Santuario di San Nicola a Tolentino e a servizio dei giovani e delle famiglie.
Questo non è un articolo celebrativo, né un articolo per soli credenti, ma è per tutti coloro che riconoscono che il bene non ha colore, credo, genere.
Padre Gabriele è uno di quelli che di bene ne ha fatto tanto, al di sopra dei colori e dei credo

É stato prete, per tutti coloro che avevano bisogno di una guida spirituale. E lo sarà ancora.

È stato fratello, per tutti coloro che avevano bisogno di camminare con qualcuno che non li giudicasse ma che li sostenesse, li guidasse con una parola, un gesto, una presenza. E lo sarà ancora.

È stato padre per tutti coloro che non ne avevano uno. Realmente o solo simbolicamente. E lo sarà ancora.
Molte sono state le persone (giovani e meno giovani) che sono passate per il convento orfani e si sono ritrovati ad aver vissuto l’esperienza della paternità e della maternità. Molte sono state le coppie, che nel desiderio di essere genitori, hanno sperimentato l’essere padre e madre di qualcuno.
Spesso l’attuale generazione di giovani la definiamo senza padri. 
È così!

In molti casi.
Ma in molti casi gli orfani che frequentavano o frequentano le scuole di Tolentino, hanno potuto vivere un tempo e uno spazio in cui degli adulti (frati, coppie sposate, giovani) hanno scelto di mettersi al servizio di una missione volta alla condivisione, alla crescita, alla riflessione.
Molti sono stati i giovani che, con coraggio, hanno deciso di partecipare ad esperienze di condivisione pur essendo non battezzati, atei, musulmani, agnostici. Giovani che potremmo definire lontani dalla vita di Chiesa eppure in quella esperienza ci hanno visto il bello, ci hanno sentito il gusto di umanità. E sono tornati.

Lo scopo di questo tipo di esperienze non è quello di aggiungere tesserati al partito della Chiesa, ma è ed è sempre stato offrire uno spazio di ascolto, un’esperienza in cui sentirsi amati.

Si trasforma la vita di un giovane che entrando dichiara ferite aperte, assenze dolorose. Cambia  e si trasforma nel viso, nelle emozioni, perché in quell’esperienza, sotto la guida della comunità agostiniana, è possibile dare senso, uscire dall’anonimato e sentirsi amati, riconoscendo un valore a se stessi, al di là della propria storia personale.

Quanto sono importanti queste esperienze per permettere ad una esistenza mutilata dal dolore di crescere forte, sostenuta dalla forza interna della vita che non permette a nessuna creatura di cadere senza offrire un valido sostegno per rialzarsi. Abbiamo tanto parlato di resilienza durante i lunghi mesi del terremoto, ma la resilienza altro non è che una competenza che ha bisogno di fattori di protezione per sviluppare e emergere. A San Nicola, in questi anni, Padre Gabriele ha trasformato se stesso, le famiglie, tutti coloro che si sono messi a servizio di una comunità in tutori di resilienza, ovvero figure capaci di sostenere lo sviluppo psichico ed emotivo dei ragazzi e far sì che l’apprendimento della sicurezza nelle proprie capacità, si potesse replicare di fronte le avversità. Senza far sentire la persona “perso”, ma radicato, sicuro.

In queste poche righe il ringraziamento a Padre Gabriele per aver intercettato la vocazione del Santuario di San Nicola quale luogo privilegiato di accoglienza, crescita e condivisione.

Un grazie non solo come cittadina ma anche molto personale, come donna, moglie, madre, per la possibilità di avermi concesso di diventare parte di un processo di crescita “senza guadagno”, riscoprendo i valori della gratuità e della solidarietà; grazie all’esperienza vissuta a San Nicola ogni adulto ha potuto imparare una forma di amore incondizionato. 

COME? OSSERVANDO COME Padre Gabriele abbia accolto in questi anni ogni richiesta,  abbia fronteggiato le avversità, abbia integrato le differenze, facendosi modello di accoglienza, tolleranza, solidarietà, perdono. Un modello di “SI! Alla vita”


A te Padre Gabriele va il mio grazie, per aver reso la mia vita assurda.
Ti auguro di trasformare in modo assurdo la vita delle persone che incontrerai.

DELLA VITA E DELLA MORTE

Dai 3 ai 5 anni i bambini iniziano a porsi le prime domande relativamente la morte. E per noi adulti generalmente iniziano i primi imbarazzi. Cosa succede quando qualcuno non c’è più? Riusciamo a parlare ai bambini della morte? Quando ci diamo la possibilità di parlare della morte, onoriamo anche la vita che c’è stata prima. Parlare di morte è dunque parlare di vita. E parlare di vita comporta anche parlare della morte. 

Molte volte mi è capitato di situazioni in cui i bambini sono stati tenuti lontano dalla possibilità di partecipare ad un culto funebre, fatto in buona fede per preservare il bambino. Ma in realtà non lo stiamo aiutando. Stiamo perdendo l’occasione di dare senso a ciò che si vive. 

Francoise Dolto, psicoterapeuta francese, ha trattato spesso questo argomento con i genitori, ha chiesto loro di sostenere le domande dei bambini, non rifiutarle, di cercare le risposte, non evitarle. Alla domanda: “Perché si muore?” È possibile rispondere “Perché ha finito di vivere”. Poche parole, che soddisfano il sano bisogno del bambino di avere risposte. “Dopo la morte cosa c’è?” Ad ognuno la risposta secondo i propri valori, il proprio credo, ma non lasciamo che queste domande rimangano senza risposta. Se non le abbiamo possiamo onestamente rispondere: “non lo so, ma noi possiamo continuare a ricordare lo zio. Lo sai cosa diceva sempre?…”. Parliamo loro della bellezza di ciò che è stato vissuto, dei momenti condivisi, solo così potremo rendere quella vita immortale. “È andato via!” senza mostrare un corpo, un rito funebre, può indurre il bambino ad un grande senso di smarrimento, instabilità, rispetto alle figure che ama: non si può rifiutare la vita e non si può evitare la morte. A volte come adulti abbiamo la grande paura di affrontare questi discorsi, riconosciamoci piccoli di fronte ai grandi eroi senza paura: i bambini. Per loro invece è un evento del tutto quotidiano, perché la vivono attraverso la natura (foglie che cadono in autunno, per esempio), fanno esperienza quotidiana e diretta dei cicli di nascita e morte. Osserviamo la natura, le stagioni e ricolleghiamola alla nostra vita.

C’è un bellissimo cartone della Disney-Pixar, COCO, che parla del culto dei morti messicano in cui ogni famiglia vive in modo il ricordo di chi non c’è più: è proprio la vita di chi oggi ha terminato di vivere, che ci ha permesso di essere qui. Ricordiamo dunque i nonni sulla poltrona, le nonne che facevano i ferri, le torte delle zie, le partite a carte nei giorni invernali, ricordiamo e onoriamo coloro che ci hanno amato, cresciuti, i loro insegnamenti…perché quando una persona viene a mancare non è tanto l’eredità economica a farcela ricordare, ma le azioni che ha compiuto nella sua vita, le parole che ha donato, l’amore che ha condiviso. Portare questo nei nostri cuori, fare delle azioni che ci fanno ricordare chi amiamo ma che non c’è più, mantengono viva la memoria di quella persona e questo significa rendere immortale la sua vita. E questo per me è importante, per non dimenticare. E allora andiamo nei cimiteri, fermiamoci a raccontare di quanto rendeva speciale quella persona, di cosa ha fatto, delle cose divertenti che ha detto. Da poco tempo è venuta a mancare una persona a cui ero molto legata. Il suo fare materno mi ha sempre fatto sentire una persona scelta, attraverso la cura dei gesti e dell’ambiente in cui viveva, mi ha insegnato a circondarmi di bellezza, di semplicità.

A non strafare, ma ad avere cura delle cose per avere cura anche delle persone. Lei mi ha insegnato ad agire in virtù di un bene per tutti, non un guadagno individuale, ma un benessere collettivo. Mi capita oggi di camminare sotto i tigli di piazza Cavour, a Tolentino, di respirare quel profumo intenso e penso a lei, penso a lei ogni volta che sono vicino ad un tiglio, alle sue battaglie perché non venissero abbattuti, alle sue lotte per donare bellezza a tutti. Le sono grata e quando ci passo con mia figlia le parlo di lei, dei suoi occhi azzurri, dei suoi ideali, dell’esempio che ha rappresentato per me.

Ciao Antonella. 

Perché la morte è vita, luci di luce altrove.
(Dal film Coco)

HAI TUTTO E NON SEI MAI CONTENTO!

Vi è mai capitato di dire questa frase? E di sentirla?

A me è capitato e capita moltissime volte di pensarlo, di dirlo. Come mamma di una bambina di 3 anni è facile pensarlo, dirlo: “Non gli/le basta mai!”, “Ha tutto e vuole sempre di più!”

…e mi permetto di dirlo che non riguarda solo i bambini. Spesso lo pensiamo e lo diciamo anche nelle relazioni con gli adulti.

Ma cosa vuole realmente?

Veramente più abbiamo, più chiediamo, più vogliamo?

O forse chiediamo e vogliamo senza prima aver capito cosa vogliamo?

Parliamo dei bambini, che poi ogni discorso è riconducibile agli adulti.
È mattina, ore 7:30. Il bambino si siede a tavola e dice: “non voglio i biscotti, voglio lo yogurt!”.
Il genitore, che ha i minuti contati e nel frattempo sta svuotando la lavastoviglie, ci prova e dice: “Dai oggi ci sono i biscotti, domani lo yogurt. Mangiali che è tardi!”. Il bambino che non conosce ii tempo ed è seduto al tavolo da solo, ritorna alla carica e ci riprova: “Io non mangio, voglio lo yogurt!”. Il genitore, che nel frattempo è passato a lavarsi i denti e ha un tempo interno che scorre velocissimo, dice (con tono nervoso): “ok, però mangi tutto e veloce, ci siamo intesi?”, il bambino accetta, il genitore prende lo yogurt e lo porge al bambino…ed ecco che il bambino fa una nuova richiesta….e lì, in quel momento, il genitore pensa che sta per esplodere.

Oppure, è domenica, finalmente il tempo del riposo, la famiglia decide di andare a fare una passeggiata al mare: i genitori seduti su una panchina, guardano i figli che giocano al parco e si godono un po di relax. Passano 5 minuti ed eccolo: “mi dai 1€ che prendo una pallina?”, il genitore non ha voglia di discutere, è domenica, vuole solo riposare: “tieni” il bambino va e torna piangendo: “non volevo quella pallina, ne volevo un’altra!”. Il genitore temporeggia, cerca di distrarlo ma non molla, viene accontentato, perché il genitore vuole stare tranquillo. Torna, dopo due palline dobbiamo ritenerci soddisfatti, stiamo bene per 5 minuti poi…”ho sete, voglio il te”, poi “ho fame voglio il gelato” e dal te o il gelato si passa alla caramella e poi…in un’infinita serie di richieste che ci fa sentire sfiniti, al termine del quale, esausti, o ci alziamo spazientiti urlando: “basta torniamo a casa, non ti basta mai! Sei incontentabile!” Seguono pianti, urla, nervosismo crescente, conflitti tra i genitori. (Ho escluso l’ipotesi fornire uno smartphone così sta zitto! perché è una pratica che risponde al bisogno di attenzione con l’isolamento).

Che cosa è successo? Che cosa succede? Io la mia idea me la sono fatta sperimentando e osservando. E quando vedi che funziona, continui.

Le domande che mi hanno spinta a questa riflessione sono state?

  1. La richiesta è chiara, ma qual’è il bisogno? 
  2. Accontentare è la via più veloce per chiudere la questione?
  3. Se accontento ogni richiesta che mi viene fatta, a cosa educo il mio bambino?

Parto dall’ultima domanda, accontentare sempre i nostri figli significa educarli ad un mondo che dice SI, a tutto. È reale il mondo che gli sto presentando? Troverà sempre adulti pronti a soddisfarlo? E questo ha fatto nascere altre questioni, tra le quali: lo sto educando a rispettare e ad ascoltare i bisogni degli altri? La risposta è NO. Pertanto devo assolutamente sapere che questo modo favorisce lo sviluppo di un individuo incapace di leggere i bisogni altrui, totalmente centrato sui suoi bisogni consumistici. Ecco dunque che rispondo alla domanda due: NO!, perché non si chiude la questione, anzi ne apro di sempre nuove e poco coerenti (domanda 1) con il bisogno. Accontentare senza comprendere il bisogno reale significa perdere l’occasione di aiutare il bambino a leggere il suo bisogno. Spesso infatti quello che vuole il bambino è una vicinanza con il genitore, un’attenzione dedicata e totale a lui e le richieste accontentate perché cosi sto tranquillo non fa altro che educare al consumismo, quindi formare uomini e donne che consumeranno in maniera bulimica oggetti, prodotti, denaro senza assolutamente esserne consapevoli.

COSA FARE? 

Cari genitori cercate di educare alla frustrazione di ricevere piccoli NO, non date risposte automatiche, chiedervi se è necessario dire Si. Se la risposta è NO, provate a dirlo. MENO SI, MENO RICHIESTE. SE SO CHE MI DICONO NO A GELATI, PATATINE, FIGURINE, CELLULARE, SMETTO DI CHIEDERE. Sarà dura i primi giorni, ma vi assicuro che i benefici saranno su tutta la vita. 

LA MISURA DI CHI SIAMO.

Quando moriremo, la misura di quello che siamo stati nella nostra vita ci sarà data dai nostri figli, dagli adulti che saremo in grado di mettere nel mondo.

Don Luigi Verdi ha aperto con queste parole un incontro per famiglie nella quiete di un eremo in Toscana: eravamo tutti seduti, accaldati, attenti, attoniti.

Il modo in cui educhiamo i nostri figli ha un peso sulla società intera.

Che cosa significa questo?

Significa per esempio che se sono seduta a tavola, durante i pasti, cerco di evitare di usare il telefono o guardare la TV, ma mi faccio modello di convivialità: racconto la mia giornata, le cose che mi sono piaciute, le difficoltà che ho affrontato, in modo che i miei figli possano acquisire, in modo del tutto indiretto e involontario, le competenze sociali dello stare insieme.

Significa che di fronte ai cosiddetti “capricci” (ricordiamoci che i capricci non esistono) scelgo di non perdere la testa, anche se sono stanca, né di pretendere che mi si porti rispetto perché vengo da una giornata di lavoro che mi ha lasciato senza energia. Scelgo di guardare a mio/a figlio/a per il/la bambino/a che è, riconosco che anche per lui/lei deve essere stata una giornata difficile senza i suoi genitori, incastrato/a tra mille impegni e trasportato/a come un pacco da un’attività all’altra.
Decido di investire le mie energie per rimanere calma, accogliere quel corpicino agitato e far diventare le mie braccia contenitore in cui abbandonare tutte le fatiche del giorno. Cosi facendo so che sto insegnando la pazienza, l’accoglienza, doti necessarie per vivere in un modo fatto di persone in carne e ossa.

Significa che se decido di andare a cena fuori o in vacanza, non scelgo di spegnere mio/a figlio/a davanti uno schermo, ma lo tengo acceso cercando di scegliere una meta tranquilla, in cui può avere uno spazio esterno in cui correre e divertirsi, portandomi uno zaino in cui ho messo cose che possono incuriosirlo/a, accettando anche che di stare seduto a tavola non ne abbia nessuna voglia. In questo modo lo/la imparerà a riconoscere i bisogni dell’altro/a, a rispettarli.

Significa che non faccio diventare mio/a figlio/a un adempimento, un compito giornaliero da assolvere o un problema da gestire. Scelgo di eliminare il tempo speso in modo superfluo (social compresi – che peraltro mi privano di ogni volontà e mi rendono triste) perché voglio avere le energie per aiutarlo/a a trovare le sue soluzioni ai problemi che lo/la preoccuperanno. Scelgo di non essere spicciativa, perché voglio dedicargli/le l’attenzione che merita; scelgo di non avere fretta, perché la sua soddisfazione è importante. Lo farò in modo autentico, nello stesso modo in cui vorrei essere accolta io, perché so che il modo in cui io oggi accolgo la sua persona, i suoi pensieri, le sue emozioni e preoccupazioni, sarà il modo in cui domani accoglierà le sofferenze altrui. 

Significa che anche se faccio un lavoro che mi porta molte ore fuori casa, quando rientro invoco il tanto dimenticato diritto alla disconnessione per connettermi totalmente con i miei figli, il mio partner, il cane, la natura che mi circonda….qualsiasi essere vivente non virtuale. In questo modo ho la possibilità di educare i miei figli ad un modo di stare in casa, in famiglia, nelle relazioni, di vivere una sfera ON-LIVE in cui fare esperienza di vita reale.

Significa infine che cerco di vivere in modo gioioso, perché non posso desiderare che mio/a figlio/a sia felice se io genitore parlo di felicità, ma vivo costantemente incazz***.
Rifiuterò il giudizio, la menzogna, la critica nella mia quotidianità, sceglierò di concentrarmi su ciò che ho, sviluppando la gratitudine, quel senso di pienezza di una vita felice. In questo modo potrò diventare modello di una vita in cui sentirsi soddisfatti.

La felicità è una scelta, ogni giorno. Quanto più vivrò nella soddisfazione e nella gioia, tanto più darò ai miei figli il permesso di fare altrettanto.

Il bello di avere figli… è goderseli.

Pochi giorni fa ero al mare con le mie figlie.
Non potevamo fare il bagno già da un paio di giorni a causa del forte vento e della pioggia.
In quei giorni abbiamo scoperto che il mare può donare grandi tesori, offrire uno spazio relazionale, e la spiaggia può diventare un ambiente ricco di giochi, stimoli, opportunità.

Raccogliere i vetri che il mare, nel suo andare e tornare, rilascia sulla spiaggia.
Esplorarli, con la vista, il tatto.
Uno è più trasparente, l’altro meno.
Uno è più levigato, l’altro meno..
Provare a classificarli.
Per colore, forma.
Disporli in ordine di grandezza.


Gli occhi diventano strumento di osservazione, catalogazione.
Il bambino allena attraverso il gioco la concentrazione, la capacità di osservazione e discriminazione.

Bambino e adulto insieme, in una serie infinita di rilanci, impegnati a costruire momenti di relazione, a fissare ricordi che durante l’inverno possono donare tenerezza, calore.
Dopo l’osservazione si può passare alla sperimentazione, alla costruzione di nuovi giochi: strade, case, ecc.

Mi domando sempre se un gioco di quelli strutturati, acquistati in negozio possa fare tutto questo. Possa tenere impegnati bambino e adulto per un lungo tempo.

La natura si conferma il miglior parco giochi di sempre, il più ricco di materiale, il più bello da toccare e sperimentare, il più emozionante da guardare, il più stupefacente da scoprire.

E allora cari adulti, buon divertimento, scoprite nei vs figli degli ottimi compagni di viaggio, lasciatevi stupire da ciò che vi circonda, ci sono infinite possibilità di esplorazioni: foglie, legnetti, conchiglie, pini, un materiale unico e sempre diverso per ogni stagione.

Buon divertimento.

PS: queste occasioni che io chiamo avventure ed esplorazioni aiuterà vs figlio/a ad imparare divertendosi, a creare un legame speciale con voi, e saranno proprio i momenti di condivisa esplorazione e scoperta a farvi ricordare, ad imprimere nella loro memoria la vs presenza e a ripeterla quando saranno genitori a loro volta.
PS2: Se ci capita di rivolgerci ai ns figli con frasi tipo: “Non mi disturbare”, “Sei una scocciatura!”… fare esperienze di questo tipo li aiuteranno a sentirsi importanti, speciali per voi.

SOGNARE IN GRANDE

È mattina e distrattamente guardo le stories sui social. 
Mi imbatto in un profilo sempre molto interessante e il tema coglie subito la mia attenzione:
“Tu sogni in grande?”
E poi… “e se non lo fai perché?” “Se lo fai perché?”.

Sogno in grande? 
Che significa sognare in grande?
È avere successo?
Che cosa significa avere successo?
Davvero successo è solo quanti followers seguono il tuo profilo o quanti soldi hai in banca?
Ci penso.
No! assolutamente NO!

Per me successo è vivere la vita che scelgo, sviluppare consapevolezza, ampliare la mia coscienza e vivere in un armonia cosmica.
…quindi no, non me ne frega dei soldi, dei conti in banca. Mi interessa essere felice.

Sono felice?

Si, lo sono moltissimo.
Prima di tutto perché sono felice di chi sono, come donna. Sono, inoltre, sposata con un uomo che amo e che rispetto, il nostro rapporto cresce e gli anni che passano sono piccoli passi che stiamo compiendo insieme, nuovi progetti che ci uniscono, nuovi orizzonti da esplorare. Ho la possibilità di essere mamma di due figlie meravigliose, opposte ma la loro vita è piena di doni per me. Vivo in una casa che mi piace, che ho arredato con poco soldi ma con le cose che mi piacciono. Ho la possibilità di vestirmi e di indossare abiti che mi fanno stare bene. Ho tutto ciò di cui ho bisogno.

Ma più di tutti quello che mi rende felice non è visibile ad occhio nudo, e non si può contare.
Mi rende felice sentire la mia qualità di presenza mentre vivo, costruire con intenzionalità il rapporto con mio marito.
La scelta di abbandonare un IO a volte troppo rumoroso a favore del NOI, di avere chiaro il tipo di coppia che vogliamo diventare e per questo ogni giorno ci lavoriamo, consapevoli che non ci sono vinti o vincitori, ma che si vince insieme.

Sono felice delle persone che mi circondano, orgogliosa delle donne amiche che chiamo sorelle, la loro vota per me è modello e mi aiutano in molte occasioni a comprendere, accogliere, perdonare. Sono felice anche delle persone che incontro e che mi mettono in difficoltà, che mi fanno arrabbiare, perché mi offrono l’occasione di conoscere i miei punti di debolezza e mi aiutano a crescere.

Mi rende felice avere gli occhi per vedere oltre ciò che appare e allora la vivacità di mia figlia non è  un atteggiamento che mi sfida ma è l’occasione per me di crescere, di superare me stessa, di allenare la mia pazienza, la mia flessibilità per trovare le strategie migliori per aiutarla a crescere e maturare.

Mi rende piena di vita guardare il mio guardaroba abbandonando l’atteggiamento consumistico del ho tante cose ma niente da mettermi per acquisire quello del ho solo le cose che mi piacciono e quindi ho buttato, dato nuova vita a ciò che non indossavo, e ho scelto di tenere solo ciò che ogni giorno veste la migliore versione di me. Che piace a me. E questo mi fa sentire bene. 
non più schiava della moda, ma con la possibilità di vivere il mio stile

Certo prima ho dovuto spogliarmi del bisogno di sentirmi accettata per quello che avevo, di quella prigione che il Brand doveva farmi sentire quella “giusta”.
È possibile?
No, se ti senti sbagliata continuerai a guardare le altre come se avessero qualcosa di più.

È stato importante per me fare un lungo e complesso percorso di scoperta e definizione della mia identità, riconoscermi padre e madre di me stessa, per cui VIA il giudizio e porte aperte all’amore genitoriale, al perdono, all’accettazione incondizionata, prima verso me stessa, poi verso gli altri. 

Ho perdonato le persone o le situazioni che mi hanno fatto soffrire, quelle che mi ha lasciato dipendente e bisognosa di amore. 
Perdonare e lasciar andare.
Tenere solo gli insegnamenti.

E ora, in questo momento della mia vita, sogno in grande?
Ah SI! Certo che lo sogno. Sogno in grandissimo

Nei miei sogni non c’è il desiderio di essere popolare, non mi interessano i like che ricevo.
Non mi interessano i grandi sogni 2.0.
E non perché snobbo gli altri, ma perché non mi muovo nel mondo in cerca di consensi.
Sento che mi muovo nel mondo con amore, il mio fine non è piacere agli altri, non mi interessa. Sono occupata però a lasciare un’impronta gentile, autentica sul mio cammino e in chi incontro. 
Gli altri mi interessano, eccome! Mi interessa la loro umanità, la relazione.

Non mi piacciono i falsi generosi che fanno qualcosa per il bisogno di sentirsi utili perché non bastano a se stessi. 
Non mi piacciono i falsi altruisti che dicono di fare il tuo bene ma poi agiscono mettendoti in una situazione di dipendenza affettiva.

Mi sento abbastanza onesta da affermare che quando agisco non è per far crescere l’immagine che ho di me. Quando agisco lo faccio con amore e gratuità.

Dunque quali sono i miei sogni?
Il grande sogno che sto vivendo è quello di poter vivere la vita che scelgo ogni giorno. Quello che spero di realizzare invece è poter contribuire ogni giorno a creare un mondo migliore.
Cerco di farlo con grande impegno nel mio ruolo come mamma, mettendomi in discussione, cercando di essere il modello migliore per insegnare alle mie figlie a muoversi con decisione, gentilezza, onestà. Lo faccio sbagliando, ma cercando di rialzarmi sempre.
Lo faccio nel mio ruolo di insegnante, cercando di promuovere nei bambini che incontro riconoscimento, libertà, consapevolezza, ma anche di favorire una riflessione con i loro genitori, affinché possano vedere nei comportamenti dei loro figli messaggi di crescita, attenzione, cambiamento. 

Ho la fiducia che così facendo io possa contribuire a rendere il mondo un posto migliore dove vivere e so di non essere sola in questa missione.

E tu, sogni in grande? Quali sono i tuoi sogni?

ESSERE VISTI, SENTIRSI AMATI

I bambini hanno bisogno di essere guardati, per lungo tempo.
Qualcuno mi ha chiesto: “cosa hai provato quando è morta tua moglie?”
Ho risposto: “Per me è cambiata la vita”,
perché dopo sono sopravvissuto, non mi è interessato granché restare al mondo.
E tuttora non mi interessa granché.
La cosa più dolorosa è la perdita del testimone.
Tu quando sei al mondo hai bisogno di essere guardato da qualcuno.
Quante cose fai perché uno ti guarda?
Lo sguardo è il primo processo di socializzazione:
Il bambino appena comincia ad aprire gli occhi e incontra lo sguardo della mamma,
la prima cosa che fa è ridere
perché esce dalla solitudine, entra nella socializzazione.
Noi viviamo se qualcuno ci guarda, se qualcuno ci fa da testimone,
quando non hai più nessun testimone puoi anche avere sei mila persone che ti applaudono, ma non ti importa niente.
I bambini allora bisogna guardarli,
mentre giocano, mentre guardano un film;
e, mentre lo guardi, chiedigli cosa prova, cosa pensa mentre fa la sua cosa,
in questo modo non lo lasci alla sua cosa, alla sua solitudine.
Guardandolo puoi accorgerti dei suoi progressi, e li riconosci.
Questo lo aiuterà a farne altre mille di passi, per il solo fatto di essere gratificato dallo sguardo”. Umberto Galimberti.


Ma quanto è semplice questa verità? Scontata! Eppure queste parole hanno avuto un grande effetto in me. In quest’epoca in cui di domandiamo spesso che effetto avrà sulla vita psichica dei bambini essere circondati da persone a cui è nascosto il sorriso, io rilancio ricordando che abbiamo lo sguardo. 

Quando il nostro sguardo è distratto, manca. Non c’è.
Se è impegnato a osservare lo scorrere di uno schermo inevitabilmente non può testimoniare la vita che si manifesta davanti ai nostro occhi. Se è impegnato a “catturare” un’immagine da inserire in un profilo social, dimentica la sua funzione reale ovvero di riconoscere e rimandare al bambino ciò che sta accadendo. Allora dopo aver catturato, sarà importante restituire (da 0 a 99 anni): “Vedo che sei impegnato a costruire una torre molto alta”, oppure “vedo che sei riuscito a fare questa cosa molto difficile…”
Faccio esempi a caso, ma necessari per comprendere il tipo di feedback di cui ha bisogno il bambino/adolescente che non è il “bravo!” ma è il: “con il mio sguardo ti vedo, per me esisti, riconosco i tuoi cambiamenti, la tua evoluzione, ti sostengo”.

Perché è così importante? Il bambino/l’adolescente nel momento in cui viene guardato, e quello sguardo produce un pensiero nell’adulto che si trasforma in parole, percepisce di esistere. E percepisce che la sua esistenza è vista da qualcuno.
E questo, inevitabilmente, permette di sentirsi parte di una relazione, di sentirsi amati. 

Care mamme che “approfittate” del momento in cui allattate per controllare le notifiche sul cellulare, cari genitori che incollate il vostro sguardo sui social in cerca di notifiche (che poi equivale a essere guardati da qualcuno) e non prestate attenzione al fatto che il vostro bambino ora sa spingersi sull’altalena da solo, cari individui che cenate con il cellulare sul tavolo per controllare se qualcuno vi cerca, cari tutti, riconosciamo che fisicamente siamo con i nostri figli, con i nostri affetti, ma che in realtà il nostro corpo sta dicendo: “sono qui ma vorrei o mi rendo disponibile ad essere altrove con qualcun altro”.

Per crescere, e aggiungerei, per vivere, abbiamo bisogno che l’altro (il genitore, il partner, l’altro in generale) sia nella relazione: quando parliamo abbiamo bisogno di essere ascoltati con gli orecchi, ma anche con il corpo, con gli occhi.

Non possiamo ascoltare se stiamo facendo un’altra cosa. Quando una persona ha bisogno di parlarci, richiede la nostra attenzione, se gli diciamo: “tu intanto parlami, che io ti ascolto” (e intanto lavi i piatti), oppure “tu dimmi, intanto rispondo un attimo a questa persona” in realtà le stiamo dicendo all’altro: “ti ascolto ma non sei così importante per me da darti uno spazio esclusivo”.

Mi piacerebbe che questo articolo suscitasse in ognuno di noi la volontà di fare un piccolo esercizio: creare uno spazio esclusivo per le relazioni significative.
Se siamo a cena, spegniamo le suonerie dei cellulari e dimentichiamoli per mezz’ora in un cassetto. Se un bambino ci sta parlando diamogli tutta la nostra attenzione, il nostro sguardo. Quello sguardo è l’unico strumento che abbiamo per farlo sentire amato, e quella certezza dell’amore svilupperà in lui sicurezza, forza, coraggio, qualità necessarie per diventare adulto e camminare nel mondo.

Lo sguardo dona all’altro la percezione di esistere. Di esistere per noi.

Possiamo avere tutti i mezzi di comunicazione del mondo, ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo dell’essere umano.
(Paulo Coelho)

TIENILO TU CHE MI PIANGE!

Care neo mamme, vi è mai capitato di ascoltare queste parole mentre vi stanno rimettendo tra le braccia il vostro bambino o bambina?

Vi è mai capitato di esservi appena sedute sul divano, aver pensato: “che bello…un attimo di riposo!!!” e al primo “Uhè”, il vostro bambino o la vostra bambina vi torna indietro come un boomerang?
A me è successo spesso, e osservo che spesso è una consuetudine. Soprattutto da parte di chi si sente poco competente rispetto a se stesso nella gestione del piccolo o della piccola.

Care mamme avete da me profonda compassione, cerchiamo ora di capire insieme come poterci difendere dall’effetto boomerang e assicurarci il momento di riposo tanto atteso.

Innanzitutto, cara mamma poniti la domanda: “Mi fido della persona a cui sto affidando il mio bambino o la mia bambina?”
Se nel momento in cui sto affidando il bambino o la bambina a cura esterne (partner incluso), la sensazione è di disagio, poca fiducia,” lo faccio ma non lo vorrei“, “te lo voglio smollare ma mi sento in colpa”, il neonato o la neonata, che è strettamente interconnesso alla mamma e al suo sentire, farà di tutto per non allontanarsene perché “come posso sentirmi quieto tra le braccia di qualcuno, se mia madre non è tranquilla?”.

La mamma in questo caso vive una duplice sensazione: frustrazione per non essersi potuta ricavare il momento tanto atteso per se, e un senso di esclusività, perché il bambino all’infuori di lei non vuole nessuno, rischiando di sentire il bambino o la bambina una sua proprietà. In questo caso, mamma puoi chiedere aiuto, riflettere insieme al tuo partner sul senso che ha per te il vostro bambino o la vostra bambina, e valutare quali potrebbero essere le condizioni che ti permetterebbero di affidarlo con serenità.

Poi ci sono le mamme che, pur sentendosi tranquille di affidare il proprio bambino o la propria bambina alle braccia del proprio partner, e quindi al padre del nuovo nato o della nuova nata, si ritrovano con un uomo che non è stato preparato ad accogliere il pianto di un bambino o una bambina; il vagito rappresenta un po un allarme interno di inadeguatezza, tipo “Non sei capace, mettilo giù” e il bambino o la bambina va restituito al “legittimo proprietario”.

Ricordiamoci che quando nasce un bambino o una bambina nascono anche una mamma e un papà. Nessuno è nato preparato a questo ruolo, forse le donne hanno fatto molta esperienza da bambine negli angoli simbolici della scuola infanzia, in cui si prendevano cura di bambole e bambolotti, ma è un’esperienza nuova per tutti.
Utile sarebbe “sdoganare” quei giochi (bambolotti, passeggini) ai bambini, cosicché i maschietti possano imparare (come fanno le femminucce), attraverso il gioco, a fare i papà (molte insegnanti sanno che i bambini sono molto attratti da passeggini e cucine di legno, ma è necessario ammettere anche che molti genitori sono terrorizzati sei i propri figli fanno questi giochi, definiti spesso “femminili”).

Il “fare finta di” ci prepara ad affrontare le future sfide della vita.
Quindi care mamme, quando il vostro partner vi guarda e sta per dirvi: “prendilo tu, che con me piange!”, fatevi forza e cercate con calma e serenità di dire: “piange anche con me, prova a cantargli una canzone” oppure “prova a sussurrare nel suo orecchio parole dolci”, in soldoni mamme, donne, non cadete nella trappola di diventare le madri dei vostri partner (la richiesta: “prendilo tu che con me piange” è un pò come la richiesta/pianto del bambino: va consolata e sostenuta) cercate di considerare il padre di vostro figlio o di vostra figlia pari a voi in termini di risorse e capacità di sostenere il bambino: accompagnateli, non giudicateli, aiutateli a diventare sempre più competenti.

E non credete alla scusa che avete “la tetta”, ogni essere umano ha in sé le risorse per fronteggiare le sfide che la vita gli propone, dobbiamo solo trovare gli strumenti per farli emergere. Aiutiamo i padri a fare i padri, favoriamo i cambi di pannolini, le passeggiate notturne per calmare una colica, scrolliamoci di dosso l’ingombrante ruolo di “essere uniche”, e condividiamo la responsabilità genitoriale, solo così potremo favorire la nascita dei nuovi padri, e riprenderci, come donne, il nostro ruolo di guida e sostegno, riconoscendo che se crediamo in loro, i papà, sono anche “più bravi” delle mamme. 

La grande piaga del premio in caramelle

Qualche mese fa portai mia figlia di 3 anni ad un corso di musica. Era un sabato mattina, entusiasta dell’esperienza e di poter partecipare.
Come genitore devo dire che è stato così bello poter vivere un laboratorio musicale insieme a lei e a tutti gli altri bambini e genitori, partecipando attivamente.

Giungiamo al termine dell’incontro e tutti i bambini (che avevano partecipato ai laboratori precedenti) si precipitano euforici verso la maestra e si mettono in attesa. In fila.
Tutti sembrano aspettare qualcosa, ma non capisco cosa. Al termine escono uno ad uno con degli stickers che dopo un paio di applicazioni vanno buttati.

Osservo, e mentre osservavo mi chiedevo…. “perché?”, “a che serve dare lo stickers?” (ma io sono la solita pallosa, quindi non dico niente)

Mentre torniamo a casa mia figlia mi dice: “Ma se ci torniamo me lo danno ancora l’adesivo?”

Eccola là, mi sono detta!
Ecco il senso della mia domanda: “Perché?”… la esplicito meglio: “quale è l’utilità di dare ai bambini un piccolo premio a fine laboratorio? Non è esso stesso già un momento ludico, divertente, da ricordare e rielaborare?”, “Perché spostare tutta l’attenzione dei bambini dal canto, dal ritmo, dagli strumenti musicali, ad uno stickers“.
Va beh, mi riprometto che a settembre, quando tornerò chiederò agli insegnanti informazioni. Perché sono curiosa di conoscere il loro punto di vista.

Passa qualche settimana, arriviamo al termine del percorso del nido. Viviamo insieme alle altre famiglie un momento di grande emozione, mi dico che la scelta del nido, che feci con grande attenzione, è stata, in questi anni, davvero ripagata dalla professionalità e intenzionalità delle educatrici che non smetterò mai di ringraziare per quanto hanno fatto.
Al termine della festa, al momento dei saluti, ogni bambino riceve il suo regalino da parte delle maestre. Penso: “quanta cura!”, “quanta attenzione!!!”
Tornano i bambini urlando: “Il lecca lecca!!!!”

E di nuovo…. “perché?????”
Ogni pacchetto conteneva una foto di gruppo, e questo è stato un gesto meraviglioso, perché i bambini guardandola ricorderanno tanti altri episodi connessi a quella esperienza, a quel gruppo, perché spostare di nuovo tutta l’attenzione su una pallina carica di zuccheri?

Perché parlo di spostare l’attenzione, perché ancora oggi alcuni quei bambini, nel ricordare di quel pomeriggio, non la definiscono come la festa del nido ma la festa in cui ho mangiato il lecca lecca!

Ora, sono certa della buona fede delle educatrici che hanno voluto fare un gesto davvero carino, ma a tratti l’ho trovato poco coerente con l’approccio montessoriano che lo ispira…da non passarmi davvero inosservato (ma io sono la solita pallosa!)

Passano i mesi, a settembre mia figlia frequenta un divertente centro estivo in piscina. Ogni mattina si sveglia così volentieri e di buon umore che la motivazione a partecipare rappresenta di per sé un ottimo feedback per tutta l’organizzazione.
Giungiamo al termine della prima settimana, Rebecca esce correndo e tutta eccitata dicendomi: “Guarda, ci hanno dato le caramelle!”

…quale sarà stata la domanda che dentro di me è sorta “spontaneamente?”
“Perché???????”
Ancora una volta perché si perde l’occasione di aiutare il bambino a vivere di per sé un’esperienza, senza per forza trattarlo al pari di un cagnolino che ha bisogno del rinforzino? Perché è necessario premiarlo?
Eppure è così bello lo sport, la scuola, le amicizie, perché non farli innamorare della gratuità dell’esperienza? Perché non sostenere in loro la crescita di una motivazione intrinseca (cioè che che nasce da dentro) a fare le cose?

I bambini sono esseri spirituali, sensibili, noi genitori, educatori insegnanti, dobbiamo aiutarli a fare le cose per se stesse, non per il rinforzino, sennò rischiamo di educare all’opportunismo: fare le cose per ricevere qualcosa in cambio.
E poi rischiamo che ogni volta che fanno qualcosa hanno bisogno di premiarsi.
Questi sono meccanismi molto spontanei, automatici, ma anche tanto pericolosi, perché strutturano un’abitudine.

Oggi, sabato 4 settembre, decido di scrivere sulle caramelle dopo aver letto un interessante post della Dietista Verdiana Ramina perché pare che questa pratica sia molto diffusa anche nelle scuole, nonostante sia vietata.
Voglio condividere la lettura di questo post non solo perché lo trovo interessante ma anche perché ci sono molti spunti di riflessione sull’educazione alimentare.

Io non posso entrare nel merito della questione da un punto di vista alimentare, ma confermo quanto ho detto sopra: ogni volta che rinforziamo l’esperienza con una caramella, stiamo spostando l’attenzione del nostro bambino su qualcosa che esula dall’esperienza fatta, e non gli permettiamo di vivere pienamente il momento su cui invece andrebbe posta tutta la nostra attenzione.

Questo non vuol dire che i bambini non possano più mangiare caramelle, certo vanno usate con parsimonia, ma è importante non usarle come premio, o arma di ricatto per avere in cambio qualcosa.
La caramella si può mangiare per il gusto di mangiarla, e basta.
Magari decidendo quando e la quantità.

Facciamoci attenzione, e educhiamo i nostri bambini a vivere pienamente le loro esperienze, senza bisogno di rinforzino.

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2 giugno, per me è cura.

Per me il 2 giugno non è solo la festa della Repubblica, anche ma non solo.
Per me il 2 giugno è il ricordo di un compleanno speciale, di una donna che non c’è più fisicamente da tanto tempo ma che sento vivere in me, grazie a tutti gli insegnamenti che mi ha trasmesso e che io ho coltivato.
Quando mia zia è morta ho pensato nessuno mi avrebbe mai fatto sentire amata come sapeva fare lei. E in parte è stato così.
Mi sono sentita persa.

Poi negli anni ho imparato che l’amore resiste il tempo e lo spazio. Le parole dette non volano, ma rimangono. Impresse nel cuore, nella memoria.
Ma quello che maggiormente resta e vive in me sono i gesti. La cura con cui faceva ogni cosa.

Mia zia non apparecchiava la tavola, lei la imbandiva.
Mia zia faceva un dolce, un dolce me lo portava, perché? Perché era generosa, perché amava condividere.
Mia zia non si vestiva per uscire, lei si preparava con un gusto che ogni giorno era un giorno speciale.
Mia zia non ti faceva un regalo, lei te lo personalizzava, era proprio il tuo. Non un presente perché andava fatto, i regali di mia zia non erano impersonali, riciclabili.
Mia zia passava sotto casa passeggiando con il cane, fischiava e quello era il suo “buongiorno” per me.
Mia zia non ti chiamava tanto per… lei ti chiamava perché aveva voglia di sapere come stavi e cosa succedeva nella tua vita. E lo faceva spesso. Non a Natale o al compleanno.
A mia zia interessava l’umano che dimora in ogni persona.
Lei ti faceva sentire unica.
E sapeva farlo con ogni persona che aveva avuto la fortuna di sostare nella sua vita.

Ma questa non è una cosa di cui essere gelosi.
Perché non trattava tutti allo stesso modo.
Ogni persona era trattata e amata nella sua specificità.
Non è il faccio così per tutti ma faccio così per te.

Da lei ho imparato che l’amore non dimora nelle intenzioni ma nelle azioni;
che le mani creano ciò che il cuore vuole dire;
che l’ambiente parla della bellezza che portiamo nel cuore.
Lei vive in me, nella bellezza che ricerco nella mia vita.

E se qualcuno mi chiedesse dove penso che sia adesso… risponderei:
ovunque ci sia un pò di bellezza.

Ciao zia