QUANDO LA SOFFERENZA DIVENTA MAESTRA

Ho riflettuto tanto sulla possibilità di scrivere questo articolo, ma non potevo agire come se non stessimo vivendo un periodo storico pazzo e tremendamente cruento. Allora ho riflettuto sul come e cosa era importante per me comunicare perché questo dolore, queste immagini, non fossero solo memorie visive ma potessero trasformare la quotidianità di ciascuno di noi, il modo in cui facciamo i genitori, nonni, zii. 

Leggo molti articoli in cui si dice: “non appesantiamo i bambini!”, sono d’accordo ma non nascondiamo la testa, né giriamola dall’altra parte, cerchiamo di fare in modo che questo dolore non vada sprecato, che la sofferenza di milioni di profughi diventi maestra per la nostra vita. Non facciamo come gli ipocriti che pensano che questa sia l’unica guerra e gli ucraini, gli unici profughi. Al mondo ci sono altre guerre e profughi sono anche coloro che arrivano via mare, per scappare da altre guerre altrettanto violente ma sembra che ci interessano meno.

Chissà perché
Generalmente viviamo in case in cui le TV vengono dimenticate accese, le immagini scorrono, le parole creano un sottofondo tutt’altro che piacevole che vanno ad appesantire uno stato d’animo affaticato, un pensiero stanco, quindi anche se questi bambini non li vogliamo appesantire…lo stiamo facendo!

Spegniamo le TV! Accendiamo una candela.
E quando i bambini ci chiederanno: “Perché?” Rispondiamo che stiamo sostenendo con la luce un popolo in pericolo, che nel nostro cuore stiamo coltivando un pensiero di pace.

AH! La pace! Quanto ci piace nominarla con i bambini: “Fate la pace!”, “Non litigate, dovete andare d’accordo!”

Dovete? Ai bambini diciamo “dovete andare d’accordo”
e tu che stai leggendo…ci riesci? Riesci ad andare d’accordo con tutti? Come adulti non dovremmo mai chiedere ad un bambino qualcosa che anche noi non siamo disposti a fare. 

E non paragoniamo la guerra con i litigi! Sono due cose ben diverse. I bambini litigano, non fanno la guerra. Gli adulti non litigano, fanno la guerra. E non bisogna essere capi di Stato, ognuno di noi, ogni giorno, fa le sue personalissime guerre al tizio che gli taglia la strada…a se stesso. “Guerra e conflitto non sono sinonimi, per quanto la comunicazione oggi li usi come tali. Nella guerra c’è violenza, nel conflitto no. Violento non è colui che litiga sempre, ma colui che non sa litigare”, dice Daniele Novara, Centro Psicopedagogico per la pace. “Per questo occorre imparare la competenza conflittuale”.

E poi c’è l’accoglienza, gli aiuti.
I nostri figli vedono che ci stiamo mobilitando per sostenere un popolo martorizzato dalla sofferenza, abbiamo l’opportunità di mostrare che siamo un grande modello di generosità e accoglienza, ma facciamo di tutto perché non siano “a tempo determinato”, cerchiamo di mantenerle e di viverle nel quotidiano e per lungo tempo. Cresciamo in generosità, accoglienza, gratuità, nelle nostre case, all’interno delle nostre famiglie, nei luoghi di lavoro.

Osservando il periodo storico che stiamo vivendo, sento dunque che come genitori, insegnanti, popolo civile dobbiamo riflettere su alcuni punti:

  1. Educhiamo alla pace permettendo ai bambini di vivere i loro conflitti: sosteniamo i bambini nel costruzione di una competenza legata alla capacità di confliggere, che comporta sentire le proprie emozioni, comunicarle, cercare una risoluzione del conflitto senza perdenti, rispettando l’altro. Impariamo come adulti il linguaggio emozionale, forniamo gli strumenti ai nostri bambini e ragazzi per andare nel mondo e vivere relazioni autentiche, costruttive. Diamo la possibilità ai bambini di allenarsi nelle loro capacità di mediare i conflitti, che non è fare finta di niente ma fare luce sul conflitto, lasciar parlare le loro emozioni.
    Il conflitto non è violenza, piuttosto è quando non si avverano le tue aspettative. Il problema è che oggi tutto ciò che ci infastidisce troppo, viene percepito come violenza. Ma dove c’è una buona educazione al conflitto, la guerra non ha ragione di esserci, Daniele Novara.
  2. Evitiamo tutti quei cartelloni pieni di parole, simboli se poi noi adulti non siamo modelli di accoglienza. Evitiamo di giudicare i bambini quando non fanno ciò che vorremmo, comprendiamo i genitori che, seppur con fatica, provano a fare il loro mestiere riconoscendo che lo fanno senza strumenti, totalmente sprovvisti. E quindi si, a volte arrancano! Un pò per pigrizia, un po’ perché “siamo cresciuti tutti”… E finiamola con questa storia, perché a occhio e croce nessuno è tanto contento di come è cresciuto. Iniziamo a decidere come vogliamo far crescere i nostri figli e da oggi, AZIONI CONCRETE! Ognuno di noi può diventare protagonista del suo cambiamento. 

Tutti insieme possiamo creare una trasformazione culturale. 

Parlare di scelta ai bambini è educarli al desiderio.

Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi solo i sogni che non fanno svegliare? – F. De André –

Da quale età possiamo iniziare a parlare di scelta per i bambini? E che cosa c’entra con l’educazione al desiderio?
Possiamo iniziare a parlare di scelta più o meno da quando cominciamo a pensare che i bambini facciano i capricci (che poi i capricci non esistono!).

Quando un bambino sta mettendo in atto comportamenti poco graditi al genitore o vietati, oppure sembra agire con aria di sfida, io credo che come adulti abbiamo due opzioni: perdere le staffe, usare un linguaggio giudicante e mortificante nei confronti del nostro bambino, esponendolo ad un clima aggressivo, oppure possiamo agire diventando l’adulto di cui avevamo bisogno quando eravamo bambini.
Se vogliamo veramente sostenere lo sviluppo del bambino che abbiamo di fronte dobbiamo scegliere la seconda opzione.


Come?
Aiutandolo a diventare consapevole del suo comportamento, raccontandogli cosa vedete, immaginando cosa sta accadendo e cosa state vivendo come adulti: “Stai piangendo molto, forse sei stanco.”, “Mi dispiace molto, ti sta aiutando questo abbraccio?”, oppure “In questo momento vedo che non vuoi unirti a noi, scegli tu quando farlo. Noi ti aspettiamo”, oppure, state facendo una passeggiata e vostro figlio si ferma ad ogni foglia (a volte sono veramente troppe!): “Tutto quello che stai vedendo è molto interessante, ma ho voglia di fare una corsetta, ti va di farmi compagnia?” oppure ancora, se il bambino continua a piangere e non sapete che fare, non fate niente. Confermate la vostra presenza, “mi dispiace che tu stia piangendo, in questo momento non capisco cosa tu mi voglia dire, ma sono qui e se vuoi posso abbracciarti!”
Io sono una delle persone che sostengono che non solo la qualità fa la relazione, ma anche la qualità. Devo ammettere però che molto tempo senza qualità è decisamente peggiore della condizione di poco tempo ma di qualità.

Come si fa a rimanere calmi? Come si fa?
Credo che alla base ci sia un fattore individuale, ovvero dipende da quanto sono stati pazienti con noi i nostri genitori o le figure che ci accudivano. A quale ambiente educativo siamo stati esposti? Se avremo interiorizzato modelli di accoglienza, tolleranza, pazienza, sarà del tutto naturale per noi essere pazienti, comprendere il momento “NO” dell’altro e provare a cercare un modo per entrare in relazione con l’altro.
Se invece abbiamo avuto genitori, o figure di riferimento, poco pazienti dovremo impegnarci molto, perché saremo meno tolleranti di fronte l’errore, l’attesa e tutto ciò che “non fila secondo i miei parametri“, Io credo sia importante garantire un modello positivo ai nostri figli, sostenere in loro lo sviluppo della tolleranza, della pazienza.

Dunque cari genitori iniziamo a integrare l’idea che i figli sono individui e iniziamo a comportarci con loro come se non fossero i nostri figli. Di solito è molto difficile che perdiamo la pazienza con gli estranei!!! Quindi meglio considerarli estranei.

Cosa fare?
Quando sentiamo che stiamo per esplodere e che non ce la facciamo più, cerchiamo di spostare l’attenzione dal comportamento all’azione che possiamo compiere. Evitiamo di iniziare a giocare una partita a tennis e iniziamo a scegliere noi stessi. Che modello genitoriale vorremmo essere?

Provate a ritornare all’età di vostro figlio, immaginatevi nella situazione tipica che vi fa saltare i nervi, immaginate di essere vostro figlio.
Entrate in ascolto di voi stessi, siete quel bambino, in quella situazione, come vorreste che vostra madre o vostro padre vi parlasse? Di che cosa avreste bisogno in quel momento?
Se riuscissimo a fare questo piccolo esercizio cambieremmo subito modo di porci nei confronti di nostro figlio, perché prendendoci cura di lui, ci prenderemo cura di quel bambino che alberga ancora in noi e che forse non sempre hanno avuto una mamma e un papà che lo hanno ascoltato.

Come un fuoco dimenticato, l’infanzia può sempre divampare nuovamente dentro di noi. – Gaston Bachelard –

E quindi? cosa c’entra questo con la scelta e il desiderio?
Un bambino compreso, un bambino ascoltato e considerato, è un bambino a cui viene riconosciuta la sua condizione di individuo unico e irripetibile, il diritto di non essere d’accordo, di esprimere la propria opinione. Sarà un bambino che crescerà con la percezione di essere ascoltato, reso partecipe, potrà costruire una positiva immagine di sé che gli permetterà di essere sereno nell’esprimere i proprio bisogni, di vivere in modo autentico alla ricerca della propria felicità, anziché dell’approvazione di un adulto che non lo ha riconosciuto quando era bambino.


E come si fa a parlare di desiderio se non si è mai parlato di scelta?
Io credo che promuovere nel bambino la capacità di operare scelte significa implicitamente avere fiducia in lui, nella sua capacità di discernere. E questo può partire dagli 0 anni, perché ovviamente saranno scelte possibili per l’età del bambino. Io dubito fortemente che un bambino a cui venga negata la propria capacità di scelta sia un bambino che potrà poi avere una buona percezione di se, che possa esprimere la propria opinione senza temere il giudizio altrui. Io credo che sostenere la scelta nel bambino significhi assolutamente sostenere lo sviluppo del coraggio, dell’autodeterminazione e la verbalizzazione dell’adulto di ciò che accade in lui, può avviare la capacità di riconoscere i propri bisogni.

Si, ma che c’entra?
Che cosa fanno gli adulti che non sono stati ascoltati? Vivono alla ricerca dell’approvazione altrui. Non ne sono consapevoli, hanno smesso di sentire i loro bisogni nel momento in cui la figura di riferimento non lo ha ascoltato o ha fatto finta di non sentirlo. Da quel giorno il bambino ha iniziato un lento e irreparabile distacco da se stesso che per ritrovarsi non saranno sufficienti le molliche di pane lasciate sulla via. Al contrario, un adulto che è stato un bambino ascoltato, riconosciuto, un bambino che è stato aiutato a leggere i propri bisogni, sarà un adulto probabilmente più felice, perché avrà chiari i suoi bisogni, si sentirà autorizzato a soddisfarli e sono quasi certa che sarà più felice, perché anziché essere alla ricerca di qualcuno che lo veda e che gli dia un riconoscimento, potrò vivere con coraggio la propria vita, nella pienezza di una scelta.

Piccolo esercizio per casa:
Scrivi una lettera a te stesso e descrivi con aggettivi come vorresti che tuo figlio o tua figlia, o i tuoi figli, parlassero di te.
Dopo aver fatto un elenco di caratteristiche che ti attribuiscono e che tu desideri, immagina cosa puoi fare da oggi per diventare quella mamma lì. É sempre il futuro che determina il presente, non il contrario.

Il guerriero sa che è libero di scegliere ciò che desidera: le sue decisioni sono prese con coraggio, distacco e, talvolta, con una certa dose di follia.
-Paulo Coelho-


Le parole che aiutano

Come sostenere un bambino che si trova ad affrontare un cambiamento? Una difficoltà? Quali parole possono aiutarlo a esprimere le proprie emozioni?
Quando il vostro bambino vive un momento di difficoltà (non riesce a fare qualcosa, oppure non fa quella cosa come vorremmo noi) ha bisogno di essere sostenuto, e non giudicato; ha bisogno di occhi nuovi per guardare ciò che vive come opportunità, e non solo come limite.
Spesso questo è difficile, perché vorremmo il nostro bambino sereno di fronte ad un problema, tenace in caso di difficoltà, disposto a non abbattersi, collaborare quando glielo chiediamo noi, insomma un bambino perfetto nel nostro immaginario, ma inesistente nella realtà.

Spesso parliamo di rispetto dei bambini, ascolto delle loro emozioni, dei loro bisogni, ecc. ma partiamo da una domanda: Qual’è la mia disposizione di spirito di fronte ad un problema? Qual’è il mio atteggiamento quando si presenta un imprevisto? Siamo sempre disponibili a cambiare velocemente i nostri programmi?

Prendiamoci un attimo per riflettere su queste domande, perché io credo che potremo sostenere la crescita del nostro bambino solo quando prenderemo consapevolezza di “come funzioniamo noi”, della possibilità che ci concediamo di ambientarci a qualcosa di nuovo, del tempo che ci diamo di fronte ad un imprevisto o ad un cambiamento, della disponibilità che ci diamo a commettere errori. Quando accetteremo i nostri limiti, saremo benevoli nei confronti delle fragilità e delle vulnerabilità altrui, saremo gentili con chi ha bisogno di tempo, useremo un linguaggio che sostiene con chi ha bisogno di andare avanti. Saremo gentili ed educheremo alla gentilezza, alla possibilità di accettare l’altro nella sua individualità; insegneremo ai bambini l’amore autentico, quello che si libera dall’immagine eroica di noi stessi per incontrare la vera natura dell’altro.

Cosa possiamo fare dunque per sostenere il nostro bambino quando si trova di fronte ad una difficoltà? L’uso di una comunicazione chiara, efficace, non sbrigativa, è sicuramente un grande aiuto.

Frasi come “Non piangere che sei grande!!!”, oppure “Dai non ti sei fatto niente”, oppure “Dai lo fanno tutti? anche quelli più piccoli di te!!!” e potremmo continuare all’infinito, non appartengono ad una comunicazione in grado di aiutare un bambino che sta vivendo un momento di difficoltà. Sono piuttosto frasi che mortificano il bambino e quello che sta provando. In qualche modo la comunicazione che stiamo dando è: “Quello che provi non ha valore, non mi interessa”. Il bambino vivrà quindi con dolore non solo il disagio di vivere una difficoltà, ma anche il fatto che ciò che prova non è importante, anzi potrebbe creare fastidio agli adulti che si occupano di lui…e lentamente smetterà di comunicarle, dimenticando di dare ascolto alle proprie emozioni.
Le vivrà intensamente, ma non saprà nominarle, riconoscerle e quindi viverle.

Io credo che lasciare inascoltate le emozioni di un bambino o di una bambina sia molto pericoloso. Sono spaventata quando incontro adulti che, in preda alla loro collera, usano un linguaggio verbale aggressivo, giudicante, e totalmente proiettivo. Soprattutto quando lo fanno nei confronti di un bambino.

É assolutamente necessario introdurre nelle scuole interventi di alfabetizzazione emotiva, sostenere i genitori nell’acquisizione di un linguaggio consapevole, sentirci responsabili, tutti, dell’educazione di ciascun individuo.

Ogni bambino ha il diritto di essere sostenuto nella sua crescita e ogni adulto ha il dovere di trovare il modo per farlo.

Se il bambino vive nella critica, impara a condannare. 
Se vive nell’ostilità, impara ad aggredire.
Se vive nell’ironia, impara la timidezza.
Se vive nella vergogna impara a sentirsi colpevole.
Se vive nella tolleranza impara ad essere paziente.
Se vive nell’incoraggiamento, impara la fiducia.
Se vive nella lealtà, impara la giustizia.
Se vive nella disponibilità, impara ad avere fede.
Se vive nell’approvazione, impara ad accettarsi.
Se vive nell’accettazione e nell’amicizia, impara a trovare l’amore nel mondo.

– Dorothy Law Nolte –