HAI TUTTO E NON SEI MAI CONTENTO!

Vi è mai capitato di dire questa frase? E di sentirla?

A me è capitato e capita moltissime volte di pensarlo, di dirlo. Come mamma di una bambina di 3 anni è facile pensarlo, dirlo: “Non gli/le basta mai!”, “Ha tutto e vuole sempre di più!”

…e mi permetto di dirlo che non riguarda solo i bambini. Spesso lo pensiamo e lo diciamo anche nelle relazioni con gli adulti.

Ma cosa vuole realmente?

Veramente più abbiamo, più chiediamo, più vogliamo?

O forse chiediamo e vogliamo senza prima aver capito cosa vogliamo?

Parliamo dei bambini, che poi ogni discorso è riconducibile agli adulti.
È mattina, ore 7:30. Il bambino si siede a tavola e dice: “non voglio i biscotti, voglio lo yogurt!”.
Il genitore, che ha i minuti contati e nel frattempo sta svuotando la lavastoviglie, ci prova e dice: “Dai oggi ci sono i biscotti, domani lo yogurt. Mangiali che è tardi!”. Il bambino che non conosce ii tempo ed è seduto al tavolo da solo, ritorna alla carica e ci riprova: “Io non mangio, voglio lo yogurt!”. Il genitore, che nel frattempo è passato a lavarsi i denti e ha un tempo interno che scorre velocissimo, dice (con tono nervoso): “ok, però mangi tutto e veloce, ci siamo intesi?”, il bambino accetta, il genitore prende lo yogurt e lo porge al bambino…ed ecco che il bambino fa una nuova richiesta….e lì, in quel momento, il genitore pensa che sta per esplodere.

Oppure, è domenica, finalmente il tempo del riposo, la famiglia decide di andare a fare una passeggiata al mare: i genitori seduti su una panchina, guardano i figli che giocano al parco e si godono un po di relax. Passano 5 minuti ed eccolo: “mi dai 1€ che prendo una pallina?”, il genitore non ha voglia di discutere, è domenica, vuole solo riposare: “tieni” il bambino va e torna piangendo: “non volevo quella pallina, ne volevo un’altra!”. Il genitore temporeggia, cerca di distrarlo ma non molla, viene accontentato, perché il genitore vuole stare tranquillo. Torna, dopo due palline dobbiamo ritenerci soddisfatti, stiamo bene per 5 minuti poi…”ho sete, voglio il te”, poi “ho fame voglio il gelato” e dal te o il gelato si passa alla caramella e poi…in un’infinita serie di richieste che ci fa sentire sfiniti, al termine del quale, esausti, o ci alziamo spazientiti urlando: “basta torniamo a casa, non ti basta mai! Sei incontentabile!” Seguono pianti, urla, nervosismo crescente, conflitti tra i genitori. (Ho escluso l’ipotesi fornire uno smartphone così sta zitto! perché è una pratica che risponde al bisogno di attenzione con l’isolamento).

Che cosa è successo? Che cosa succede? Io la mia idea me la sono fatta sperimentando e osservando. E quando vedi che funziona, continui.

Le domande che mi hanno spinta a questa riflessione sono state?

  1. La richiesta è chiara, ma qual’è il bisogno? 
  2. Accontentare è la via più veloce per chiudere la questione?
  3. Se accontento ogni richiesta che mi viene fatta, a cosa educo il mio bambino?

Parto dall’ultima domanda, accontentare sempre i nostri figli significa educarli ad un mondo che dice SI, a tutto. È reale il mondo che gli sto presentando? Troverà sempre adulti pronti a soddisfarlo? E questo ha fatto nascere altre questioni, tra le quali: lo sto educando a rispettare e ad ascoltare i bisogni degli altri? La risposta è NO. Pertanto devo assolutamente sapere che questo modo favorisce lo sviluppo di un individuo incapace di leggere i bisogni altrui, totalmente centrato sui suoi bisogni consumistici. Ecco dunque che rispondo alla domanda due: NO!, perché non si chiude la questione, anzi ne apro di sempre nuove e poco coerenti (domanda 1) con il bisogno. Accontentare senza comprendere il bisogno reale significa perdere l’occasione di aiutare il bambino a leggere il suo bisogno. Spesso infatti quello che vuole il bambino è una vicinanza con il genitore, un’attenzione dedicata e totale a lui e le richieste accontentate perché cosi sto tranquillo non fa altro che educare al consumismo, quindi formare uomini e donne che consumeranno in maniera bulimica oggetti, prodotti, denaro senza assolutamente esserne consapevoli.

COSA FARE? 

Cari genitori cercate di educare alla frustrazione di ricevere piccoli NO, non date risposte automatiche, chiedervi se è necessario dire Si. Se la risposta è NO, provate a dirlo. MENO SI, MENO RICHIESTE. SE SO CHE MI DICONO NO A GELATI, PATATINE, FIGURINE, CELLULARE, SMETTO DI CHIEDERE. Sarà dura i primi giorni, ma vi assicuro che i benefici saranno su tutta la vita. 

LA MISURA DI CHI SIAMO.

Quando moriremo, la misura di quello che siamo stati nella nostra vita ci sarà data dai nostri figli, dagli adulti che saremo in grado di mettere nel mondo.

Don Luigi Verdi ha aperto con queste parole un incontro per famiglie nella quiete di un eremo in Toscana: eravamo tutti seduti, accaldati, attenti, attoniti.

Il modo in cui educhiamo i nostri figli ha un peso sulla società intera.

Che cosa significa questo?

Significa per esempio che se sono seduta a tavola, durante i pasti, cerco di evitare di usare il telefono o guardare la TV, ma mi faccio modello di convivialità: racconto la mia giornata, le cose che mi sono piaciute, le difficoltà che ho affrontato, in modo che i miei figli possano acquisire, in modo del tutto indiretto e involontario, le competenze sociali dello stare insieme.

Significa che di fronte ai cosiddetti “capricci” (ricordiamoci che i capricci non esistono) scelgo di non perdere la testa, anche se sono stanca, né di pretendere che mi si porti rispetto perché vengo da una giornata di lavoro che mi ha lasciato senza energia. Scelgo di guardare a mio/a figlio/a per il/la bambino/a che è, riconosco che anche per lui/lei deve essere stata una giornata difficile senza i suoi genitori, incastrato/a tra mille impegni e trasportato/a come un pacco da un’attività all’altra.
Decido di investire le mie energie per rimanere calma, accogliere quel corpicino agitato e far diventare le mie braccia contenitore in cui abbandonare tutte le fatiche del giorno. Cosi facendo so che sto insegnando la pazienza, l’accoglienza, doti necessarie per vivere in un modo fatto di persone in carne e ossa.

Significa che se decido di andare a cena fuori o in vacanza, non scelgo di spegnere mio/a figlio/a davanti uno schermo, ma lo tengo acceso cercando di scegliere una meta tranquilla, in cui può avere uno spazio esterno in cui correre e divertirsi, portandomi uno zaino in cui ho messo cose che possono incuriosirlo/a, accettando anche che di stare seduto a tavola non ne abbia nessuna voglia. In questo modo lo/la imparerà a riconoscere i bisogni dell’altro/a, a rispettarli.

Significa che non faccio diventare mio/a figlio/a un adempimento, un compito giornaliero da assolvere o un problema da gestire. Scelgo di eliminare il tempo speso in modo superfluo (social compresi – che peraltro mi privano di ogni volontà e mi rendono triste) perché voglio avere le energie per aiutarlo/a a trovare le sue soluzioni ai problemi che lo/la preoccuperanno. Scelgo di non essere spicciativa, perché voglio dedicargli/le l’attenzione che merita; scelgo di non avere fretta, perché la sua soddisfazione è importante. Lo farò in modo autentico, nello stesso modo in cui vorrei essere accolta io, perché so che il modo in cui io oggi accolgo la sua persona, i suoi pensieri, le sue emozioni e preoccupazioni, sarà il modo in cui domani accoglierà le sofferenze altrui. 

Significa che anche se faccio un lavoro che mi porta molte ore fuori casa, quando rientro invoco il tanto dimenticato diritto alla disconnessione per connettermi totalmente con i miei figli, il mio partner, il cane, la natura che mi circonda….qualsiasi essere vivente non virtuale. In questo modo ho la possibilità di educare i miei figli ad un modo di stare in casa, in famiglia, nelle relazioni, di vivere una sfera ON-LIVE in cui fare esperienza di vita reale.

Significa infine che cerco di vivere in modo gioioso, perché non posso desiderare che mio/a figlio/a sia felice se io genitore parlo di felicità, ma vivo costantemente incazz***.
Rifiuterò il giudizio, la menzogna, la critica nella mia quotidianità, sceglierò di concentrarmi su ciò che ho, sviluppando la gratitudine, quel senso di pienezza di una vita felice. In questo modo potrò diventare modello di una vita in cui sentirsi soddisfatti.

La felicità è una scelta, ogni giorno. Quanto più vivrò nella soddisfazione e nella gioia, tanto più darò ai miei figli il permesso di fare altrettanto.

OCCHI PER VEDERE

Ognuno di noi ha due occhi, due orecchi, due mani, ma quanti sanno vedere, ascoltare, toccare?

In questo ultimo anno che sono rimasta a casa mi sono dedicata a me, alla mia famiglia, alla preparazione di un nido che sapesse accogliere.
…ma non ho smesso di essere insegnante. E così ho approfittato di questo tempo per studiare, attività che mi piace molto ma che mi è difficile nella quotidianità, per tanti motivi, che sono gli stessi che non permettono a ognuno di noi di dedicarci a ciò che amiamo: ritmi serrati, lavoro, famiglia, ecc.

Sospendere le mie attività lavorative mi ha permesso quindi di dedicarmi allo studio, di spolverare la mia cassetta degli attrezzi, selezionare ciò che c’era, eliminare ciò che ingombrava per fare spazio a qualcosa di nuovo.
L’ho rifornita di strumenti posseduti ma dimenticati, di domande mai poste, di riflessioni che mi stanno spingendo verso un modo di fare l’insegnante che mi piace sempre di più, fatto di scoperta, di domande, di sentire che non è solo con le orecchie, di guardare che non è solo vedere.

Mi sto dunque dedicando all’approfondimento del Metodo Munari attraverso una collana di laboratori tematici creata in collaborazione con l’Associazione Bruno Munari. I testi mi stanno aiutando a capire, ad approfondire ma soprattutto mi stanno donando uno sguardo nuovo sul mondo.

Ecco allora che ieri passeggiavo in campagna e osservavo la natura intorno a me, e mi sembrava di non averla mai vista.
E sono nate in me tre riflessioni: la prima è la constatazione di quale sensibilità e profondità d’animo caratterizzasse l’uomo Bruno Munari. Perché tutti guardiamo ma lui non solo ha visto, ha avuto una grande visione che ancora oggi stupisce.
Poi ho pensato a quanto sia importante come adulti avere quello sguardo per educare i bambini (e quindi i nuovi adulti), per diventare modelli di come posare i propri occhi in modo attento su ciò che ci circonda, per scoprire la bellezza, l’ordine naturale delle cose.

Raccogliere un sasso e buttarlo nel fiume sarà allora un’esplorazione unica: porre attenzione alla sensazione sulla mano del sasso raccolto, differenziare i pesi tra pietre diverse ma apparentemente simili, scorrere la loro superficie . Provare a sentire il tipo di sensazione che ne scaturisce: piacevolezza, fastidio… Gettare il sasso nel fiume diventa poi l’occasione per osservare l’effetto delle pietre che cadono in acqua… e se buttiamo un bastoncino di legno? Cade nello stesso modo? Perché?

Tutto può sembrare così apparentemente sciocco, superficiale ma per un bambino prendere un sasso e buttarlo in acqua è molto diverso da prendere un sasso, essere accompagnati a osservare, metterci le parole per descrivere e sperimentare, buttarlo in acqua, e di nuovo osservare e riflettere.
Accompagnare i bambini in questa osservazione, con il giusto tempo e silenzio, permette a ciascuno (adulto e bambino) di essere nel mondo in maniera presente, di passeggiare guardando ciò che ci circonda, di vivere un’esperienza totalmente aderente al qui ed ora che ha carattere di infinito.

Una passeggiata nella natura può diventare un’esperienza unica di disconnessione dal mondo esterno per connettersi al momento presente, a ciò che ci circonda facendoci percepire tutt’uno con la natura.
È così che mi sono sentita ieri mentre guardavo il cielo, ascoltavo lo scorrere dell’acqua del fiume, guardavo gli alberi… Mi sembrava fosse la prima volta.

Quando ho guardato questo albero con grande stupore ho ricordato il libro dedicato alla Natura:Per disegnare un albero basta disegnare una Y, alle due estremità tracciare altre due Y e così via, creando ramificazioni”.

Eh già! tante Y fanno un albero. Ho 41 anni e ho guardato questo albero per la prima volta. Mi è venuta una gran voglia di tornare a casa e provare a disegnarlo, scoprire che non è poi così difficile disegnare un albero invernale, che potevo smetterla con quella serie infinita di alberi con la chioma verde. Perché la natura risveglia, la relazione con lei dona entusiasmo.
Se tutto questo accade in me adulto, chissà cosa succede nell’animo di un bambino?!

Sostenere i bambini a vivere esperienze nella natura, stimolare la loro curiosità attraverso domande, formulazione di ipotesi, può aiutarli a diventare curiosi, attenti, a promuovere una sensibilità e cura nei confronti della grande madre Natura.
Il Pianeta ha bisogno di cittadini e cittadine che abbiano gli occhi per guardare, una sensibilità per porsi domande, un cuore per amare la natura che li circonda, un sentimento e azioni di cura per preservare la bellezza.
Compito degli adulti che mettono al mondo i figli è proprio questo: promuovere la nascita di sentimenti e azioni che vadano in questa direzione.

Cari adulti diamoci il tempo di poter fare queste esperienze con i nostri figli, siamo sempre di corsa, ma per andare dove?
Alla fine della nostra vita non conteranno i soldi accumulati, saranno le relazioni a scaldarci il cuore, a farci sentire vivi.
Inutile costruire gabbie d’oro se poi non diamo da mangiare all’uccellino che c’è dentro.
Spegniamo il telefono (viviamo il lusso della non reperibilità), riserviamo ai bambini il giusto tempo, che è il tempo lento, di far nascere in loro le domande, le curiosità… evitiamo di dare risposte, invitiamo a sperimentare.

Facciamoci insegnare dai nostri figli a vivere le esperienze in modo totalmente presente al qui ed ora, divertiamoci con loro.
Facciamo come adulti un passo indietro e facciamo fare un passo avanti al nostro bambino interiore, prendiamoci cura di lui e ci prenderemo cura dei nostri figli.



Vi auguro tante avventurose scoperte.

ESSERE VISTI, SENTIRSI AMATI

I bambini hanno bisogno di essere guardati, per lungo tempo.
Qualcuno mi ha chiesto: “cosa hai provato quando è morta tua moglie?”
Ho risposto: “Per me è cambiata la vita”,
perché dopo sono sopravvissuto, non mi è interessato granché restare al mondo.
E tuttora non mi interessa granché.
La cosa più dolorosa è la perdita del testimone.
Tu quando sei al mondo hai bisogno di essere guardato da qualcuno.
Quante cose fai perché uno ti guarda?
Lo sguardo è il primo processo di socializzazione:
Il bambino appena comincia ad aprire gli occhi e incontra lo sguardo della mamma,
la prima cosa che fa è ridere
perché esce dalla solitudine, entra nella socializzazione.
Noi viviamo se qualcuno ci guarda, se qualcuno ci fa da testimone,
quando non hai più nessun testimone puoi anche avere sei mila persone che ti applaudono, ma non ti importa niente.
I bambini allora bisogna guardarli,
mentre giocano, mentre guardano un film;
e, mentre lo guardi, chiedigli cosa prova, cosa pensa mentre fa la sua cosa,
in questo modo non lo lasci alla sua cosa, alla sua solitudine.
Guardandolo puoi accorgerti dei suoi progressi, e li riconosci.
Questo lo aiuterà a farne altre mille di passi, per il solo fatto di essere gratificato dallo sguardo”. Umberto Galimberti.


Ma quanto è semplice questa verità? Scontata! Eppure queste parole hanno avuto un grande effetto in me. In quest’epoca in cui di domandiamo spesso che effetto avrà sulla vita psichica dei bambini essere circondati da persone a cui è nascosto il sorriso, io rilancio ricordando che abbiamo lo sguardo. 

Quando il nostro sguardo è distratto, manca. Non c’è.
Se è impegnato a osservare lo scorrere di uno schermo inevitabilmente non può testimoniare la vita che si manifesta davanti ai nostro occhi. Se è impegnato a “catturare” un’immagine da inserire in un profilo social, dimentica la sua funzione reale ovvero di riconoscere e rimandare al bambino ciò che sta accadendo. Allora dopo aver catturato, sarà importante restituire (da 0 a 99 anni): “Vedo che sei impegnato a costruire una torre molto alta”, oppure “vedo che sei riuscito a fare questa cosa molto difficile…”
Faccio esempi a caso, ma necessari per comprendere il tipo di feedback di cui ha bisogno il bambino/adolescente che non è il “bravo!” ma è il: “con il mio sguardo ti vedo, per me esisti, riconosco i tuoi cambiamenti, la tua evoluzione, ti sostengo”.

Perché è così importante? Il bambino/l’adolescente nel momento in cui viene guardato, e quello sguardo produce un pensiero nell’adulto che si trasforma in parole, percepisce di esistere. E percepisce che la sua esistenza è vista da qualcuno.
E questo, inevitabilmente, permette di sentirsi parte di una relazione, di sentirsi amati. 

Care mamme che “approfittate” del momento in cui allattate per controllare le notifiche sul cellulare, cari genitori che incollate il vostro sguardo sui social in cerca di notifiche (che poi equivale a essere guardati da qualcuno) e non prestate attenzione al fatto che il vostro bambino ora sa spingersi sull’altalena da solo, cari individui che cenate con il cellulare sul tavolo per controllare se qualcuno vi cerca, cari tutti, riconosciamo che fisicamente siamo con i nostri figli, con i nostri affetti, ma che in realtà il nostro corpo sta dicendo: “sono qui ma vorrei o mi rendo disponibile ad essere altrove con qualcun altro”.

Per crescere, e aggiungerei, per vivere, abbiamo bisogno che l’altro (il genitore, il partner, l’altro in generale) sia nella relazione: quando parliamo abbiamo bisogno di essere ascoltati con gli orecchi, ma anche con il corpo, con gli occhi.

Non possiamo ascoltare se stiamo facendo un’altra cosa. Quando una persona ha bisogno di parlarci, richiede la nostra attenzione, se gli diciamo: “tu intanto parlami, che io ti ascolto” (e intanto lavi i piatti), oppure “tu dimmi, intanto rispondo un attimo a questa persona” in realtà le stiamo dicendo all’altro: “ti ascolto ma non sei così importante per me da darti uno spazio esclusivo”.

Mi piacerebbe che questo articolo suscitasse in ognuno di noi la volontà di fare un piccolo esercizio: creare uno spazio esclusivo per le relazioni significative.
Se siamo a cena, spegniamo le suonerie dei cellulari e dimentichiamoli per mezz’ora in un cassetto. Se un bambino ci sta parlando diamogli tutta la nostra attenzione, il nostro sguardo. Quello sguardo è l’unico strumento che abbiamo per farlo sentire amato, e quella certezza dell’amore svilupperà in lui sicurezza, forza, coraggio, qualità necessarie per diventare adulto e camminare nel mondo.

Lo sguardo dona all’altro la percezione di esistere. Di esistere per noi.

Possiamo avere tutti i mezzi di comunicazione del mondo, ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo dell’essere umano.
(Paulo Coelho)

TIENILO TU CHE MI PIANGE!

Care neo mamme, vi è mai capitato di ascoltare queste parole mentre vi stanno rimettendo tra le braccia il vostro bambino o bambina?

Vi è mai capitato di esservi appena sedute sul divano, aver pensato: “che bello…un attimo di riposo!!!” e al primo “Uhè”, il vostro bambino o la vostra bambina vi torna indietro come un boomerang?
A me è successo spesso, e osservo che spesso è una consuetudine. Soprattutto da parte di chi si sente poco competente rispetto a se stesso nella gestione del piccolo o della piccola.

Care mamme avete da me profonda compassione, cerchiamo ora di capire insieme come poterci difendere dall’effetto boomerang e assicurarci il momento di riposo tanto atteso.

Innanzitutto, cara mamma poniti la domanda: “Mi fido della persona a cui sto affidando il mio bambino o la mia bambina?”
Se nel momento in cui sto affidando il bambino o la bambina a cura esterne (partner incluso), la sensazione è di disagio, poca fiducia,” lo faccio ma non lo vorrei“, “te lo voglio smollare ma mi sento in colpa”, il neonato o la neonata, che è strettamente interconnesso alla mamma e al suo sentire, farà di tutto per non allontanarsene perché “come posso sentirmi quieto tra le braccia di qualcuno, se mia madre non è tranquilla?”.

La mamma in questo caso vive una duplice sensazione: frustrazione per non essersi potuta ricavare il momento tanto atteso per se, e un senso di esclusività, perché il bambino all’infuori di lei non vuole nessuno, rischiando di sentire il bambino o la bambina una sua proprietà. In questo caso, mamma puoi chiedere aiuto, riflettere insieme al tuo partner sul senso che ha per te il vostro bambino o la vostra bambina, e valutare quali potrebbero essere le condizioni che ti permetterebbero di affidarlo con serenità.

Poi ci sono le mamme che, pur sentendosi tranquille di affidare il proprio bambino o la propria bambina alle braccia del proprio partner, e quindi al padre del nuovo nato o della nuova nata, si ritrovano con un uomo che non è stato preparato ad accogliere il pianto di un bambino o una bambina; il vagito rappresenta un po un allarme interno di inadeguatezza, tipo “Non sei capace, mettilo giù” e il bambino o la bambina va restituito al “legittimo proprietario”.

Ricordiamoci che quando nasce un bambino o una bambina nascono anche una mamma e un papà. Nessuno è nato preparato a questo ruolo, forse le donne hanno fatto molta esperienza da bambine negli angoli simbolici della scuola infanzia, in cui si prendevano cura di bambole e bambolotti, ma è un’esperienza nuova per tutti.
Utile sarebbe “sdoganare” quei giochi (bambolotti, passeggini) ai bambini, cosicché i maschietti possano imparare (come fanno le femminucce), attraverso il gioco, a fare i papà (molte insegnanti sanno che i bambini sono molto attratti da passeggini e cucine di legno, ma è necessario ammettere anche che molti genitori sono terrorizzati sei i propri figli fanno questi giochi, definiti spesso “femminili”).

Il “fare finta di” ci prepara ad affrontare le future sfide della vita.
Quindi care mamme, quando il vostro partner vi guarda e sta per dirvi: “prendilo tu, che con me piange!”, fatevi forza e cercate con calma e serenità di dire: “piange anche con me, prova a cantargli una canzone” oppure “prova a sussurrare nel suo orecchio parole dolci”, in soldoni mamme, donne, non cadete nella trappola di diventare le madri dei vostri partner (la richiesta: “prendilo tu che con me piange” è un pò come la richiesta/pianto del bambino: va consolata e sostenuta) cercate di considerare il padre di vostro figlio o di vostra figlia pari a voi in termini di risorse e capacità di sostenere il bambino: accompagnateli, non giudicateli, aiutateli a diventare sempre più competenti.

E non credete alla scusa che avete “la tetta”, ogni essere umano ha in sé le risorse per fronteggiare le sfide che la vita gli propone, dobbiamo solo trovare gli strumenti per farli emergere. Aiutiamo i padri a fare i padri, favoriamo i cambi di pannolini, le passeggiate notturne per calmare una colica, scrolliamoci di dosso l’ingombrante ruolo di “essere uniche”, e condividiamo la responsabilità genitoriale, solo così potremo favorire la nascita dei nuovi padri, e riprenderci, come donne, il nostro ruolo di guida e sostegno, riconoscendo che se crediamo in loro, i papà, sono anche “più bravi” delle mamme. 

Lettera alla mia prima figlia.

Cara prima figlia, ti ringrazio per esserti assunta questo ruolo.
In te riconosco la forza di chi sa contenere, sopportare, resistere ai miei errori, alle mie cadute.
Mi dispiace per gli errori fatti, frutto dell’inesperienza, di una pazienza che prima non c’era e che sto imparando con te. Sta crescendo con te.
Mi dispiace per le volte in cui non ho compreso il tuo pianto, più volte mi sono spazientita, avrei urlato “ma cosa ti manca? perché non dormi?” e quell’abbraccio non è stato l’abbraccio che avresti voluto.
Grazie per aver trovato ancora nelle mie braccia un porto sicuro, un ancoraggio.
Ti sono grata per non esserti fermata a quelle volte di fatica e di aver sempre considerato la maggior parte delle “volte buone”.
Io non ne sono capace. Ti osservo. Imparo.

Mi dispiace per quelle volte in cui non ho accolto i tuoi bisogni.
Non avevo compreso quando, il loro presentarsi con prepotenza, era sintomo di un messaggio. Io reagivo solo alla prepotenza.
Mi dispiace di non averlo capito subito, ma ti ringrazio per aver continuato a mettere in atto quelli che tutti chiamiamo capricci, perché a forza di presentarmi la stessa lezione…alla fine ho capito. I capricci non esistono. Lo confermo.
Sono una richiesta semplice, con il linguaggio da bambino, per un mondo adulto che non sa ascoltare. Che lo ha dimenticato.
Che lo ha disimparato quando anche egli, bambino o bambina, ha cercato di urlarlo il dolore, il disagio, e quell’urlo veniva zittito, con un ciuccio, con un urlo, con un “non è niente!”
Ti ringrazio per aver aspettato che io mi mettessi nella giusta posizione per comprendere ciò che mi stavi chiedendo, dovevo riprendere il vocabolario, spolverarlo e riappropriarmene.
Da sola ho rischiato di non farcela. Ho chiesto aiuto, e sono riuscita a trovare la chiave di lettura.

Mi dispiace per quelle volte che ho dimenticato la tua età pretendendo da te un comportamento adulto, in quel momento io stessa, non lo sono stata!
Facevo la bambina, pretendevo da te qualcosa che non eri in grado di darmi.
Ho dimenticato che io sono madre, e tu sei figlia.
Ti ringrazio per aver avuto pazienza, per aver protestato che tu quel ruolo non lo volevi.
Le tue urla e opposizioni mi hanno ricordato chi sei, la tua età… il mio ruolo.

Mi dispiace per le volte in cui non riesco a fare ciò che ho intenzione di fare. I comportamenti automatici qualche volta sono più forti di un intenzione sana ed educativa.
Ringrazio però la mia tenacia a rialzarmi sempre, e sono felice che tu possa guardarmi, perché possa anche tu imparare a non mollare, mai! A cercare, sempre!
Ti vorrei insegnare la disponibilità a metterti in discussione, perché questa è l’unica via per crescere.

Mi dispiace ma sono certa che non riuscirò mai a essere la madre ideale che vorrei, ogni giorno cerco di fare qualcosa ma l’idea che ho in mente cambia, si trasforma.
Cambia e si trasforma nel quotidiano, nel nostro stare insieme.
E sta cambiando perché a me le sbavature piacciono, la perfezione è spesso così disumana.
Ti ringrazio perché mi concedi il lusso di poter smetterla di pretendere da me qualcosa che non ci sarà mai e mi stai insegnando a vivere accogliendo la mia smisurata e imperfetta umanità.
Permettendolo a me, sono certa, riuscirò a permetterlo anche a te.

Con amore, mamma.

Tutti a casa, mai così distanti.

Un anno fa si annunciava il primo lockdown generale.
Tutti a casa!

Da vita frenetica, agende con impegni sovrapposti, tutti sempre di corsa a tutti fermi!
Senza distinzioni.

Il giorno prima pensavi di essere indispensabile. Il giorno dopo scopri di aver poggiato una vita su una serie di robe che… puff! In un attimo possono essere sospese e sostituite da esperimenti culinari, tutorial di chitarra, arcobaleni appesi.

È stato un anno duro, faticoso, ognuno di noi ha cercato di adattarsi a ciò che stavamo vivendo. Qualcuno si è visto costretto a salutare i suoi cari senza nemmeno averli accompagnati nelle lunghe e solitarie degenze.

È stato un anno di bollettini di morte, DPCM, virologi da marciapiede, limitazioni, distanziamenti e ognuno ha cercato, come è stato possibile di sopravvivere. Anche grazie agli ansiolitici e antidepressivi che in molti casi hanno sostituito l’aperitivo delle sette di sera.
Qualcuno ne ha approfittato, per fare le cose sospese, occuparsi della sua felicità e da uno dei periodi più brutti della storia ne è emersa una meravigliosa opportunità di rinascita.

Ora siamo qui, dopo un anno, zona rossa.
Ma dove sono finiti tutti quei cantori da balcone “dell’andrà tutto bene”, aperitivi sul balcone, gomitino e “volemoce bene”?

Siamo messi cosi:
Scuole chiuse.
Bambini a casa.
Ragazzi e ragazze in didattica a distanza.
Professori in didattica a distanza. Da casa.
Industrie aperte.
Genitori al lavoro, quelli messi meglio.
Genitori in smartworking, quelli che stanno peggio.

Cerchiamo di immaginare uno scenario che può apparire fantastico. Ma è tutt’altro che immaginario.
Ipotesi 1
Una appartamento di 80mq. La sala da pranzo è diventata ufficio del papà, il piano di lavoro della cucina si è trasformato in scrivania della mamma. La stanza dei bimbi è aula didattica del figlio più grande, il comodino della camera da letto dei genitori banco di scuola del figlio piccolo.

Ipotesi 2
Papà lavora fuori, mamma lavora da casa due giorni a settimana, il resto è in ufficio. Due figli. Uno in didattica a distanza alla primaria e il secondo più piccolo che ha la sua didattica a distanza, ma è all’infanzia quindi il suo impegno è ridotto ad un paio di collegamenti a settimana. E fin qui…Se non fosse per i compiti da fare, il materiale che viene caricato nelle piattaforme, il cellulare che si impalla con le notifiche e il bambino piccolo che vuole giocare, ma da solo no.

Potrei continuare all’infinito perché di situazioni complesse me ne raccontano tante, e mai come in questo periodo ho ricevuto telefonate e messaggi per un confronto su come intervenire con i bambini.

I bambini, quella categoria dimenticata!
La tratterò in un articolo dedicato, ora quello che mi interessa mettere a fuoco è che in entrambe le ipotesi ci sono intere famiglie in casa. Eppure ogni persona vive nel suo mondo. Dietro ai suoi impegni.

Tutti insieme. Mai così distanti.

I primi gg di zona rossa ero sempre a casa con mia figlia, eppure lei non è mai stata così nervosa, e di riflesso io.
Mi sono sembrati giorni terribili.
Poi ci ho riflettuto, mi sono confrontata e ho capito.

Ero tutto il giorno a casa con mia figlia, ma non ci stavo con la testa. Ero molto impegnata a capire come organizzarmi per le cose che erano rimaste sospese ed ecco che si è rivelata di fronte a me la più nota e scontata legge dell’educazione. Il bambino ha bisogno di quantità di tempo in cui ci sia una qualità relazionale.

Io non credo a quelli che dicono che in presenza di una buona qualità, la quantità di tempo non conta. Riflettiamoci e pensiamo a quando eravamo giovani e innamorati. Io mi ricordo che dopo un weekend di passeggiate, tempo lento, abbracci e coccole, quando arrivava il momento di salutarci ero disperata. Il mio cuore si struggeva.
Ah!!!! se quei binari delle stazioni potessero parlare! quante lacrime hanno raccolto, quante promesse hanno custodito!
Ecco con i bambini funziona uguale.

E allora cercate di godervelo il tempo in cui siete la luce dei loro occhi. Che poi succede che il tempo passa in fretta, prendono la propria strada e anziché lasciarli andare, li teniamo stretti alle nostre sottane, dimenticando però che un tempo, eravamo noi a essere sfuggenti, ad avere altro da fare, a scappare. E pretendevamo che ci capissero, che comprendessero i nostri bisogni.
E noi siamo disposti a capire i loro bisogni?

E come si fa?
Torniamo al principio di questa breve riflessione.

Tutti insieme. Mai cosi distanti.
Come possiamo evitare che questa distanza diventi strutturale e vada a modificare sostanzialmente la relazione all’interno delle famiglie?

Stiamo vivendo una quotidianità in cui siamo costantemente connessi. La connessione verso il fuori ci scollega dalla connessione dentro. Proviamo a fare una prova di famiglia?
ecco la mia piccola proposta per questa settimana:
Il più coraggioso della famiglia chieda al partner e ai figli, se ci sono, se sono disposti a impegnarsi in scelta di famiglia.

Quale?
Tutti i componenti concordano un orario in cui spegnere il telefono. Tipo dalle 20 alle 22 o, per i più temerari, dalle 20 fino alla mattina dopo.
All’inizio è dura. Osservate come ogni 3/4 minuti vi viene automatico andare a prendere il cellulare per controllare se avete notifiche, di qualsiasi tipo. Se succede, non mollate. Controllate il vostro istinto e osservate l’effetto che fa in voi.
Se si rende necessaria una ricerca improvvisa e assolutamente necessaria su google rimandatela alle 22! Agite come se foste voi il padrone di voi stessi.

Che cosa fare?
Perché questa proposta sia proficua dovrete condividere le proposte di cosa fare in quel tempo di disconnessione. Provate ad ascoltarvi e a dire cosa vorreste fare: si accetta di tutto, anche pulire le finestre insieme, oppure impastare una pizza, leggere un libro, costruire un castello o guardare un film. Proposte un po anni ’80, ma io sono di quell’epoca, ed eravamo liberi dai social.

Quando?
Subito! Appena vi viene l’ispirazione, non la perdete.
All’inizio sarà difficile abbandonare l’abitudine di starsene sul divano con il proprio smartphone, c’è sempre una notifica importante da controllare, ma ricordatevi di agire come se foste liberi e non schiavi dalle tecnologie. Ricordate però che la casa, la famiglia ha bisogni di relazioni per mantenersi viva. A meno che non siate semplici coinquilini.
Ma se sentite che quello che sto dicendo ha un pò di verità provate, una volta a settimana, solo il venerdì o tutto il weekend.

Concludo, dicendo che non propongo niente che io non abbia sperimentato.
Che propongo solo cose che ho sperimentato e che hanno portato un contributo alla mia vita.

Aspetto i vostri feedback, sarei così curiosa di conoscere le vostre esperienze.
Buona domenica….disconessa.

Dove imparano a essere bulli?

E se si imparasse a essere bulli?
Ma da chi? Dove?

Proveremo a riflettere sul tema insieme alla pedagogista Emily Mignanelli

Alle radici del bullismo

Forse la mia visione è utopistica, ma io amo i sognatori, senza di loro non ci sarebbe stato progresso. Credo fermamente che bisogna cambiare punto di vista se vogliamo veramente sostenere lo sviluppo di una società più umana. Credo fortemente che la responsabilità è di ognuno e di ciascuno.
Non possiamo tirarci indietro.
Viviamo in una società. Rendiamola comunità.
Per confrontarci su questi temi abbiamo scelto una pedagogista, le cui parole hanno valore nel presente ma hanno carattere di infinito. Cara Emily Mignanelli non vedo l’ora!

Le parole che aiutano

Come sostenere un bambino che si trova ad affrontare un cambiamento? Una difficoltà? Quali parole possono aiutarlo a esprimere le proprie emozioni?
Quando il vostro bambino vive un momento di difficoltà (non riesce a fare qualcosa, oppure non fa quella cosa come vorremmo noi) ha bisogno di essere sostenuto, e non giudicato; ha bisogno di occhi nuovi per guardare ciò che vive come opportunità, e non solo come limite.
Spesso questo è difficile, perché vorremmo il nostro bambino sereno di fronte ad un problema, tenace in caso di difficoltà, disposto a non abbattersi, collaborare quando glielo chiediamo noi, insomma un bambino perfetto nel nostro immaginario, ma inesistente nella realtà.

Spesso parliamo di rispetto dei bambini, ascolto delle loro emozioni, dei loro bisogni, ecc. ma partiamo da una domanda: Qual’è la mia disposizione di spirito di fronte ad un problema? Qual’è il mio atteggiamento quando si presenta un imprevisto? Siamo sempre disponibili a cambiare velocemente i nostri programmi?

Prendiamoci un attimo per riflettere su queste domande, perché io credo che potremo sostenere la crescita del nostro bambino solo quando prenderemo consapevolezza di “come funzioniamo noi”, della possibilità che ci concediamo di ambientarci a qualcosa di nuovo, del tempo che ci diamo di fronte ad un imprevisto o ad un cambiamento, della disponibilità che ci diamo a commettere errori. Quando accetteremo i nostri limiti, saremo benevoli nei confronti delle fragilità e delle vulnerabilità altrui, saremo gentili con chi ha bisogno di tempo, useremo un linguaggio che sostiene con chi ha bisogno di andare avanti. Saremo gentili ed educheremo alla gentilezza, alla possibilità di accettare l’altro nella sua individualità; insegneremo ai bambini l’amore autentico, quello che si libera dall’immagine eroica di noi stessi per incontrare la vera natura dell’altro.

Cosa possiamo fare dunque per sostenere il nostro bambino quando si trova di fronte ad una difficoltà? L’uso di una comunicazione chiara, efficace, non sbrigativa, è sicuramente un grande aiuto.

Frasi come “Non piangere che sei grande!!!”, oppure “Dai non ti sei fatto niente”, oppure “Dai lo fanno tutti? anche quelli più piccoli di te!!!” e potremmo continuare all’infinito, non appartengono ad una comunicazione in grado di aiutare un bambino che sta vivendo un momento di difficoltà. Sono piuttosto frasi che mortificano il bambino e quello che sta provando. In qualche modo la comunicazione che stiamo dando è: “Quello che provi non ha valore, non mi interessa”. Il bambino vivrà quindi con dolore non solo il disagio di vivere una difficoltà, ma anche il fatto che ciò che prova non è importante, anzi potrebbe creare fastidio agli adulti che si occupano di lui…e lentamente smetterà di comunicarle, dimenticando di dare ascolto alle proprie emozioni.
Le vivrà intensamente, ma non saprà nominarle, riconoscerle e quindi viverle.

Io credo che lasciare inascoltate le emozioni di un bambino o di una bambina sia molto pericoloso. Sono spaventata quando incontro adulti che, in preda alla loro collera, usano un linguaggio verbale aggressivo, giudicante, e totalmente proiettivo. Soprattutto quando lo fanno nei confronti di un bambino.

É assolutamente necessario introdurre nelle scuole interventi di alfabetizzazione emotiva, sostenere i genitori nell’acquisizione di un linguaggio consapevole, sentirci responsabili, tutti, dell’educazione di ciascun individuo.

Ogni bambino ha il diritto di essere sostenuto nella sua crescita e ogni adulto ha il dovere di trovare il modo per farlo.

Se il bambino vive nella critica, impara a condannare. 
Se vive nell’ostilità, impara ad aggredire.
Se vive nell’ironia, impara la timidezza.
Se vive nella vergogna impara a sentirsi colpevole.
Se vive nella tolleranza impara ad essere paziente.
Se vive nell’incoraggiamento, impara la fiducia.
Se vive nella lealtà, impara la giustizia.
Se vive nella disponibilità, impara ad avere fede.
Se vive nell’approvazione, impara ad accettarsi.
Se vive nell’accettazione e nell’amicizia, impara a trovare l’amore nel mondo.

– Dorothy Law Nolte –