HAI TUTTO E NON SEI MAI CONTENTO!

Vi è mai capitato di dire questa frase? E di sentirla?

A me è capitato e capita moltissime volte di pensarlo, di dirlo. Come mamma di una bambina di 3 anni è facile pensarlo, dirlo: “Non gli/le basta mai!”, “Ha tutto e vuole sempre di più!”

…e mi permetto di dirlo che non riguarda solo i bambini. Spesso lo pensiamo e lo diciamo anche nelle relazioni con gli adulti.

Ma cosa vuole realmente?

Veramente più abbiamo, più chiediamo, più vogliamo?

O forse chiediamo e vogliamo senza prima aver capito cosa vogliamo?

Parliamo dei bambini, che poi ogni discorso è riconducibile agli adulti.
È mattina, ore 7:30. Il bambino si siede a tavola e dice: “non voglio i biscotti, voglio lo yogurt!”.
Il genitore, che ha i minuti contati e nel frattempo sta svuotando la lavastoviglie, ci prova e dice: “Dai oggi ci sono i biscotti, domani lo yogurt. Mangiali che è tardi!”. Il bambino che non conosce ii tempo ed è seduto al tavolo da solo, ritorna alla carica e ci riprova: “Io non mangio, voglio lo yogurt!”. Il genitore, che nel frattempo è passato a lavarsi i denti e ha un tempo interno che scorre velocissimo, dice (con tono nervoso): “ok, però mangi tutto e veloce, ci siamo intesi?”, il bambino accetta, il genitore prende lo yogurt e lo porge al bambino…ed ecco che il bambino fa una nuova richiesta….e lì, in quel momento, il genitore pensa che sta per esplodere.

Oppure, è domenica, finalmente il tempo del riposo, la famiglia decide di andare a fare una passeggiata al mare: i genitori seduti su una panchina, guardano i figli che giocano al parco e si godono un po di relax. Passano 5 minuti ed eccolo: “mi dai 1€ che prendo una pallina?”, il genitore non ha voglia di discutere, è domenica, vuole solo riposare: “tieni” il bambino va e torna piangendo: “non volevo quella pallina, ne volevo un’altra!”. Il genitore temporeggia, cerca di distrarlo ma non molla, viene accontentato, perché il genitore vuole stare tranquillo. Torna, dopo due palline dobbiamo ritenerci soddisfatti, stiamo bene per 5 minuti poi…”ho sete, voglio il te”, poi “ho fame voglio il gelato” e dal te o il gelato si passa alla caramella e poi…in un’infinita serie di richieste che ci fa sentire sfiniti, al termine del quale, esausti, o ci alziamo spazientiti urlando: “basta torniamo a casa, non ti basta mai! Sei incontentabile!” Seguono pianti, urla, nervosismo crescente, conflitti tra i genitori. (Ho escluso l’ipotesi fornire uno smartphone così sta zitto! perché è una pratica che risponde al bisogno di attenzione con l’isolamento).

Che cosa è successo? Che cosa succede? Io la mia idea me la sono fatta sperimentando e osservando. E quando vedi che funziona, continui.

Le domande che mi hanno spinta a questa riflessione sono state?

  1. La richiesta è chiara, ma qual’è il bisogno? 
  2. Accontentare è la via più veloce per chiudere la questione?
  3. Se accontento ogni richiesta che mi viene fatta, a cosa educo il mio bambino?

Parto dall’ultima domanda, accontentare sempre i nostri figli significa educarli ad un mondo che dice SI, a tutto. È reale il mondo che gli sto presentando? Troverà sempre adulti pronti a soddisfarlo? E questo ha fatto nascere altre questioni, tra le quali: lo sto educando a rispettare e ad ascoltare i bisogni degli altri? La risposta è NO. Pertanto devo assolutamente sapere che questo modo favorisce lo sviluppo di un individuo incapace di leggere i bisogni altrui, totalmente centrato sui suoi bisogni consumistici. Ecco dunque che rispondo alla domanda due: NO!, perché non si chiude la questione, anzi ne apro di sempre nuove e poco coerenti (domanda 1) con il bisogno. Accontentare senza comprendere il bisogno reale significa perdere l’occasione di aiutare il bambino a leggere il suo bisogno. Spesso infatti quello che vuole il bambino è una vicinanza con il genitore, un’attenzione dedicata e totale a lui e le richieste accontentate perché cosi sto tranquillo non fa altro che educare al consumismo, quindi formare uomini e donne che consumeranno in maniera bulimica oggetti, prodotti, denaro senza assolutamente esserne consapevoli.

COSA FARE? 

Cari genitori cercate di educare alla frustrazione di ricevere piccoli NO, non date risposte automatiche, chiedervi se è necessario dire Si. Se la risposta è NO, provate a dirlo. MENO SI, MENO RICHIESTE. SE SO CHE MI DICONO NO A GELATI, PATATINE, FIGURINE, CELLULARE, SMETTO DI CHIEDERE. Sarà dura i primi giorni, ma vi assicuro che i benefici saranno su tutta la vita. 

LA MISURA DI CHI SIAMO.

Quando moriremo, la misura di quello che siamo stati nella nostra vita ci sarà data dai nostri figli, dagli adulti che saremo in grado di mettere nel mondo.

Don Luigi Verdi ha aperto con queste parole un incontro per famiglie nella quiete di un eremo in Toscana: eravamo tutti seduti, accaldati, attenti, attoniti.

Il modo in cui educhiamo i nostri figli ha un peso sulla società intera.

Che cosa significa questo?

Significa per esempio che se sono seduta a tavola, durante i pasti, cerco di evitare di usare il telefono o guardare la TV, ma mi faccio modello di convivialità: racconto la mia giornata, le cose che mi sono piaciute, le difficoltà che ho affrontato, in modo che i miei figli possano acquisire, in modo del tutto indiretto e involontario, le competenze sociali dello stare insieme.

Significa che di fronte ai cosiddetti “capricci” (ricordiamoci che i capricci non esistono) scelgo di non perdere la testa, anche se sono stanca, né di pretendere che mi si porti rispetto perché vengo da una giornata di lavoro che mi ha lasciato senza energia. Scelgo di guardare a mio/a figlio/a per il/la bambino/a che è, riconosco che anche per lui/lei deve essere stata una giornata difficile senza i suoi genitori, incastrato/a tra mille impegni e trasportato/a come un pacco da un’attività all’altra.
Decido di investire le mie energie per rimanere calma, accogliere quel corpicino agitato e far diventare le mie braccia contenitore in cui abbandonare tutte le fatiche del giorno. Cosi facendo so che sto insegnando la pazienza, l’accoglienza, doti necessarie per vivere in un modo fatto di persone in carne e ossa.

Significa che se decido di andare a cena fuori o in vacanza, non scelgo di spegnere mio/a figlio/a davanti uno schermo, ma lo tengo acceso cercando di scegliere una meta tranquilla, in cui può avere uno spazio esterno in cui correre e divertirsi, portandomi uno zaino in cui ho messo cose che possono incuriosirlo/a, accettando anche che di stare seduto a tavola non ne abbia nessuna voglia. In questo modo lo/la imparerà a riconoscere i bisogni dell’altro/a, a rispettarli.

Significa che non faccio diventare mio/a figlio/a un adempimento, un compito giornaliero da assolvere o un problema da gestire. Scelgo di eliminare il tempo speso in modo superfluo (social compresi – che peraltro mi privano di ogni volontà e mi rendono triste) perché voglio avere le energie per aiutarlo/a a trovare le sue soluzioni ai problemi che lo/la preoccuperanno. Scelgo di non essere spicciativa, perché voglio dedicargli/le l’attenzione che merita; scelgo di non avere fretta, perché la sua soddisfazione è importante. Lo farò in modo autentico, nello stesso modo in cui vorrei essere accolta io, perché so che il modo in cui io oggi accolgo la sua persona, i suoi pensieri, le sue emozioni e preoccupazioni, sarà il modo in cui domani accoglierà le sofferenze altrui. 

Significa che anche se faccio un lavoro che mi porta molte ore fuori casa, quando rientro invoco il tanto dimenticato diritto alla disconnessione per connettermi totalmente con i miei figli, il mio partner, il cane, la natura che mi circonda….qualsiasi essere vivente non virtuale. In questo modo ho la possibilità di educare i miei figli ad un modo di stare in casa, in famiglia, nelle relazioni, di vivere una sfera ON-LIVE in cui fare esperienza di vita reale.

Significa infine che cerco di vivere in modo gioioso, perché non posso desiderare che mio/a figlio/a sia felice se io genitore parlo di felicità, ma vivo costantemente incazz***.
Rifiuterò il giudizio, la menzogna, la critica nella mia quotidianità, sceglierò di concentrarmi su ciò che ho, sviluppando la gratitudine, quel senso di pienezza di una vita felice. In questo modo potrò diventare modello di una vita in cui sentirsi soddisfatti.

La felicità è una scelta, ogni giorno. Quanto più vivrò nella soddisfazione e nella gioia, tanto più darò ai miei figli il permesso di fare altrettanto.

OCCHI PER VEDERE

Ognuno di noi ha due occhi, due orecchi, due mani, ma quanti sanno vedere, ascoltare, toccare?

In questo ultimo anno che sono rimasta a casa mi sono dedicata a me, alla mia famiglia, alla preparazione di un nido che sapesse accogliere.
…ma non ho smesso di essere insegnante. E così ho approfittato di questo tempo per studiare, attività che mi piace molto ma che mi è difficile nella quotidianità, per tanti motivi, che sono gli stessi che non permettono a ognuno di noi di dedicarci a ciò che amiamo: ritmi serrati, lavoro, famiglia, ecc.

Sospendere le mie attività lavorative mi ha permesso quindi di dedicarmi allo studio, di spolverare la mia cassetta degli attrezzi, selezionare ciò che c’era, eliminare ciò che ingombrava per fare spazio a qualcosa di nuovo.
L’ho rifornita di strumenti posseduti ma dimenticati, di domande mai poste, di riflessioni che mi stanno spingendo verso un modo di fare l’insegnante che mi piace sempre di più, fatto di scoperta, di domande, di sentire che non è solo con le orecchie, di guardare che non è solo vedere.

Mi sto dunque dedicando all’approfondimento del Metodo Munari attraverso una collana di laboratori tematici creata in collaborazione con l’Associazione Bruno Munari. I testi mi stanno aiutando a capire, ad approfondire ma soprattutto mi stanno donando uno sguardo nuovo sul mondo.

Ecco allora che ieri passeggiavo in campagna e osservavo la natura intorno a me, e mi sembrava di non averla mai vista.
E sono nate in me tre riflessioni: la prima è la constatazione di quale sensibilità e profondità d’animo caratterizzasse l’uomo Bruno Munari. Perché tutti guardiamo ma lui non solo ha visto, ha avuto una grande visione che ancora oggi stupisce.
Poi ho pensato a quanto sia importante come adulti avere quello sguardo per educare i bambini (e quindi i nuovi adulti), per diventare modelli di come posare i propri occhi in modo attento su ciò che ci circonda, per scoprire la bellezza, l’ordine naturale delle cose.

Raccogliere un sasso e buttarlo nel fiume sarà allora un’esplorazione unica: porre attenzione alla sensazione sulla mano del sasso raccolto, differenziare i pesi tra pietre diverse ma apparentemente simili, scorrere la loro superficie . Provare a sentire il tipo di sensazione che ne scaturisce: piacevolezza, fastidio… Gettare il sasso nel fiume diventa poi l’occasione per osservare l’effetto delle pietre che cadono in acqua… e se buttiamo un bastoncino di legno? Cade nello stesso modo? Perché?

Tutto può sembrare così apparentemente sciocco, superficiale ma per un bambino prendere un sasso e buttarlo in acqua è molto diverso da prendere un sasso, essere accompagnati a osservare, metterci le parole per descrivere e sperimentare, buttarlo in acqua, e di nuovo osservare e riflettere.
Accompagnare i bambini in questa osservazione, con il giusto tempo e silenzio, permette a ciascuno (adulto e bambino) di essere nel mondo in maniera presente, di passeggiare guardando ciò che ci circonda, di vivere un’esperienza totalmente aderente al qui ed ora che ha carattere di infinito.

Una passeggiata nella natura può diventare un’esperienza unica di disconnessione dal mondo esterno per connettersi al momento presente, a ciò che ci circonda facendoci percepire tutt’uno con la natura.
È così che mi sono sentita ieri mentre guardavo il cielo, ascoltavo lo scorrere dell’acqua del fiume, guardavo gli alberi… Mi sembrava fosse la prima volta.

Quando ho guardato questo albero con grande stupore ho ricordato il libro dedicato alla Natura:Per disegnare un albero basta disegnare una Y, alle due estremità tracciare altre due Y e così via, creando ramificazioni”.

Eh già! tante Y fanno un albero. Ho 41 anni e ho guardato questo albero per la prima volta. Mi è venuta una gran voglia di tornare a casa e provare a disegnarlo, scoprire che non è poi così difficile disegnare un albero invernale, che potevo smetterla con quella serie infinita di alberi con la chioma verde. Perché la natura risveglia, la relazione con lei dona entusiasmo.
Se tutto questo accade in me adulto, chissà cosa succede nell’animo di un bambino?!

Sostenere i bambini a vivere esperienze nella natura, stimolare la loro curiosità attraverso domande, formulazione di ipotesi, può aiutarli a diventare curiosi, attenti, a promuovere una sensibilità e cura nei confronti della grande madre Natura.
Il Pianeta ha bisogno di cittadini e cittadine che abbiano gli occhi per guardare, una sensibilità per porsi domande, un cuore per amare la natura che li circonda, un sentimento e azioni di cura per preservare la bellezza.
Compito degli adulti che mettono al mondo i figli è proprio questo: promuovere la nascita di sentimenti e azioni che vadano in questa direzione.

Cari adulti diamoci il tempo di poter fare queste esperienze con i nostri figli, siamo sempre di corsa, ma per andare dove?
Alla fine della nostra vita non conteranno i soldi accumulati, saranno le relazioni a scaldarci il cuore, a farci sentire vivi.
Inutile costruire gabbie d’oro se poi non diamo da mangiare all’uccellino che c’è dentro.
Spegniamo il telefono (viviamo il lusso della non reperibilità), riserviamo ai bambini il giusto tempo, che è il tempo lento, di far nascere in loro le domande, le curiosità… evitiamo di dare risposte, invitiamo a sperimentare.

Facciamoci insegnare dai nostri figli a vivere le esperienze in modo totalmente presente al qui ed ora, divertiamoci con loro.
Facciamo come adulti un passo indietro e facciamo fare un passo avanti al nostro bambino interiore, prendiamoci cura di lui e ci prenderemo cura dei nostri figli.



Vi auguro tante avventurose scoperte.

ESSERE VISTI, SENTIRSI AMATI

I bambini hanno bisogno di essere guardati, per lungo tempo.
Qualcuno mi ha chiesto: “cosa hai provato quando è morta tua moglie?”
Ho risposto: “Per me è cambiata la vita”,
perché dopo sono sopravvissuto, non mi è interessato granché restare al mondo.
E tuttora non mi interessa granché.
La cosa più dolorosa è la perdita del testimone.
Tu quando sei al mondo hai bisogno di essere guardato da qualcuno.
Quante cose fai perché uno ti guarda?
Lo sguardo è il primo processo di socializzazione:
Il bambino appena comincia ad aprire gli occhi e incontra lo sguardo della mamma,
la prima cosa che fa è ridere
perché esce dalla solitudine, entra nella socializzazione.
Noi viviamo se qualcuno ci guarda, se qualcuno ci fa da testimone,
quando non hai più nessun testimone puoi anche avere sei mila persone che ti applaudono, ma non ti importa niente.
I bambini allora bisogna guardarli,
mentre giocano, mentre guardano un film;
e, mentre lo guardi, chiedigli cosa prova, cosa pensa mentre fa la sua cosa,
in questo modo non lo lasci alla sua cosa, alla sua solitudine.
Guardandolo puoi accorgerti dei suoi progressi, e li riconosci.
Questo lo aiuterà a farne altre mille di passi, per il solo fatto di essere gratificato dallo sguardo”. Umberto Galimberti.


Ma quanto è semplice questa verità? Scontata! Eppure queste parole hanno avuto un grande effetto in me. In quest’epoca in cui di domandiamo spesso che effetto avrà sulla vita psichica dei bambini essere circondati da persone a cui è nascosto il sorriso, io rilancio ricordando che abbiamo lo sguardo. 

Quando il nostro sguardo è distratto, manca. Non c’è.
Se è impegnato a osservare lo scorrere di uno schermo inevitabilmente non può testimoniare la vita che si manifesta davanti ai nostro occhi. Se è impegnato a “catturare” un’immagine da inserire in un profilo social, dimentica la sua funzione reale ovvero di riconoscere e rimandare al bambino ciò che sta accadendo. Allora dopo aver catturato, sarà importante restituire (da 0 a 99 anni): “Vedo che sei impegnato a costruire una torre molto alta”, oppure “vedo che sei riuscito a fare questa cosa molto difficile…”
Faccio esempi a caso, ma necessari per comprendere il tipo di feedback di cui ha bisogno il bambino/adolescente che non è il “bravo!” ma è il: “con il mio sguardo ti vedo, per me esisti, riconosco i tuoi cambiamenti, la tua evoluzione, ti sostengo”.

Perché è così importante? Il bambino/l’adolescente nel momento in cui viene guardato, e quello sguardo produce un pensiero nell’adulto che si trasforma in parole, percepisce di esistere. E percepisce che la sua esistenza è vista da qualcuno.
E questo, inevitabilmente, permette di sentirsi parte di una relazione, di sentirsi amati. 

Care mamme che “approfittate” del momento in cui allattate per controllare le notifiche sul cellulare, cari genitori che incollate il vostro sguardo sui social in cerca di notifiche (che poi equivale a essere guardati da qualcuno) e non prestate attenzione al fatto che il vostro bambino ora sa spingersi sull’altalena da solo, cari individui che cenate con il cellulare sul tavolo per controllare se qualcuno vi cerca, cari tutti, riconosciamo che fisicamente siamo con i nostri figli, con i nostri affetti, ma che in realtà il nostro corpo sta dicendo: “sono qui ma vorrei o mi rendo disponibile ad essere altrove con qualcun altro”.

Per crescere, e aggiungerei, per vivere, abbiamo bisogno che l’altro (il genitore, il partner, l’altro in generale) sia nella relazione: quando parliamo abbiamo bisogno di essere ascoltati con gli orecchi, ma anche con il corpo, con gli occhi.

Non possiamo ascoltare se stiamo facendo un’altra cosa. Quando una persona ha bisogno di parlarci, richiede la nostra attenzione, se gli diciamo: “tu intanto parlami, che io ti ascolto” (e intanto lavi i piatti), oppure “tu dimmi, intanto rispondo un attimo a questa persona” in realtà le stiamo dicendo all’altro: “ti ascolto ma non sei così importante per me da darti uno spazio esclusivo”.

Mi piacerebbe che questo articolo suscitasse in ognuno di noi la volontà di fare un piccolo esercizio: creare uno spazio esclusivo per le relazioni significative.
Se siamo a cena, spegniamo le suonerie dei cellulari e dimentichiamoli per mezz’ora in un cassetto. Se un bambino ci sta parlando diamogli tutta la nostra attenzione, il nostro sguardo. Quello sguardo è l’unico strumento che abbiamo per farlo sentire amato, e quella certezza dell’amore svilupperà in lui sicurezza, forza, coraggio, qualità necessarie per diventare adulto e camminare nel mondo.

Lo sguardo dona all’altro la percezione di esistere. Di esistere per noi.

Possiamo avere tutti i mezzi di comunicazione del mondo, ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo dell’essere umano.
(Paulo Coelho)

Lettera alla mia prima figlia.

Cara prima figlia, ti ringrazio per esserti assunta questo ruolo.
In te riconosco la forza di chi sa contenere, sopportare, resistere ai miei errori, alle mie cadute.
Mi dispiace per gli errori fatti, frutto dell’inesperienza, di una pazienza che prima non c’era e che sto imparando con te. Sta crescendo con te.
Mi dispiace per le volte in cui non ho compreso il tuo pianto, più volte mi sono spazientita, avrei urlato “ma cosa ti manca? perché non dormi?” e quell’abbraccio non è stato l’abbraccio che avresti voluto.
Grazie per aver trovato ancora nelle mie braccia un porto sicuro, un ancoraggio.
Ti sono grata per non esserti fermata a quelle volte di fatica e di aver sempre considerato la maggior parte delle “volte buone”.
Io non ne sono capace. Ti osservo. Imparo.

Mi dispiace per quelle volte in cui non ho accolto i tuoi bisogni.
Non avevo compreso quando, il loro presentarsi con prepotenza, era sintomo di un messaggio. Io reagivo solo alla prepotenza.
Mi dispiace di non averlo capito subito, ma ti ringrazio per aver continuato a mettere in atto quelli che tutti chiamiamo capricci, perché a forza di presentarmi la stessa lezione…alla fine ho capito. I capricci non esistono. Lo confermo.
Sono una richiesta semplice, con il linguaggio da bambino, per un mondo adulto che non sa ascoltare. Che lo ha dimenticato.
Che lo ha disimparato quando anche egli, bambino o bambina, ha cercato di urlarlo il dolore, il disagio, e quell’urlo veniva zittito, con un ciuccio, con un urlo, con un “non è niente!”
Ti ringrazio per aver aspettato che io mi mettessi nella giusta posizione per comprendere ciò che mi stavi chiedendo, dovevo riprendere il vocabolario, spolverarlo e riappropriarmene.
Da sola ho rischiato di non farcela. Ho chiesto aiuto, e sono riuscita a trovare la chiave di lettura.

Mi dispiace per quelle volte che ho dimenticato la tua età pretendendo da te un comportamento adulto, in quel momento io stessa, non lo sono stata!
Facevo la bambina, pretendevo da te qualcosa che non eri in grado di darmi.
Ho dimenticato che io sono madre, e tu sei figlia.
Ti ringrazio per aver avuto pazienza, per aver protestato che tu quel ruolo non lo volevi.
Le tue urla e opposizioni mi hanno ricordato chi sei, la tua età… il mio ruolo.

Mi dispiace per le volte in cui non riesco a fare ciò che ho intenzione di fare. I comportamenti automatici qualche volta sono più forti di un intenzione sana ed educativa.
Ringrazio però la mia tenacia a rialzarmi sempre, e sono felice che tu possa guardarmi, perché possa anche tu imparare a non mollare, mai! A cercare, sempre!
Ti vorrei insegnare la disponibilità a metterti in discussione, perché questa è l’unica via per crescere.

Mi dispiace ma sono certa che non riuscirò mai a essere la madre ideale che vorrei, ogni giorno cerco di fare qualcosa ma l’idea che ho in mente cambia, si trasforma.
Cambia e si trasforma nel quotidiano, nel nostro stare insieme.
E sta cambiando perché a me le sbavature piacciono, la perfezione è spesso così disumana.
Ti ringrazio perché mi concedi il lusso di poter smetterla di pretendere da me qualcosa che non ci sarà mai e mi stai insegnando a vivere accogliendo la mia smisurata e imperfetta umanità.
Permettendolo a me, sono certa, riuscirò a permetterlo anche a te.

Con amore, mamma.

Bianco e morbido.

Sveglia fissata alle 6:15, obiettivo farmi una bella camminata di sabato, per distendere le tensioni accumulate, caricarmi di buona energia per la settimana successiva.

Non avevo però considerato l’allerta meteo.

Quindi mi sveglio, forte del mio obiettivo, apro un po la persiana: tutto bianco.
Mi sono rimessa a letto. Oggi me la prendo comoda.
Poi mi sono detta: “ma che bello però avere la casa tutta per me, silenziosa, un pò di yoga, godermi la neve che scende. Oggi me la prendo bianca e morbida.

A godermi senza pretese un tempo in casa che generalmente è affaccendato, organizzato.

Ora è bianco, morbido e silenzioso.
Ho tutto il tempo a disposizione, posso fare quello che voglio.

È possibile avere un tempo tutto per se senza uscire di casa. Sì, basta alzarsi prima degli altri e godersela un pò.

Perché avrei potuto vivere con frustrazione il fatto di non poter andare a camminare, uscire all’aria aperta (anche se lo farò più tardi e non da sola), avrei potuto. Se la mia vita fosse nel lamento e la mia attenzione nella parte mancante.
In questo periodo invece mi sto dedicando a porre l’attenzione su ciò che c’è. Senza pensare a ciò che non c’è o ci sarebbe potuto essere.
Io voglio dedicare la mia attenzione a ciò che c’è, all’unica cosa reale.

Perché lo chiamo esercizio? Perché è un allenamento.
Ci vuole intenzione per iniziare, tenacia per proseguire, resistenza per farlo diventare un modo di fare nella propria vita.

Ecco allora che ho avuto la possibilità di dedicarmi un tempo diverso da quello che avevo pensato ma non per questo peggiore, ho scelto con cura come “riempirlo”.
Io credo che se ci focalizziamo sulle cose da fare per stare bene rischiamo di vivere la frustrazione di non essere mai pienamente felici, se invece ci focalizziamo sullo stare bene, non è poi molto importante quali azioni mettere in atto.

Bianco e morbido.
Oggi voglio vivere così. Nella pienezza di un sabato non immaginato, non programmato.
Nello stupore di un evento che mi apre la possibilità di trovare nuove forme di benessere, al di là di quelle pensate e immaginate.

Ultimamente sto leggendo un libro che mi mette di fronte a molte domande, alle quali non riesco a trovare risposta se non provando a vivere cercandole.

Cosa faresti se ti rimanesse soltanto un anno di vita?
Che cosa vorresti lasciare in eredità a questo mondo, quando te ne andrai?

Io non ho mai creduto che una eredità fosse quella del conto in banca, che per carità aiuta ma non insegna niente. Le più grandi eredità che ho ricevuto sono state le azioni, l’esempio nella vita vissuta, nelle tribolazioni quotidiane, che rappresentano la cassetta degli attrezzi per orientarmi in questa vita.

Che cosa vorresti lasciare in eredità a questo mondo, quando te ne andrai?
Ancora non lo so, ma di certo sto lavorando sulla morbidezza. Non è facile.
Morbidezza nel perdonarmi un errore, per poi perdonarlo a qualcun altro.
Nel concedermi la possibilità di non adempiere a tutti gli obiettivi quotidiani, per poterlo accettare negli altri. Morbidezza nel non essere perfetta, per poter accogliere l’altro, nella sua impercettibile perfezione.


Vorrei lasciare in eredità la cura per le cose, e questo cerco di farlo ogni giorno, prendendomi cura delle relazioni, degli spazi, del tempo.
Ricavarmi un tempo per dedicare un tempo esclusivo a mia figlia, che per me significa prendermi uno spazio in cui guardarla negli occhi, giocare con lei, partecipare ai suoi processi di costruzione del pensiero, osservare come cresce.
Odio la frase: “Non mi sono neanche accorta di com’è diventato grande”.

Io mi voglio accorgere. E lo voglio fissare, per ricordaglielo, per narrarle chi è stata nella sua infanzia, per restituire una storia non solo frammenti regalati dalla memoria.

E allora prendiamocelo questo tempo, è nostro. E di nessun altro. Scegliamo cosa metterci. Non lasciamo che trascorra dietro a schermi o cose che non ci recano felicità.
Riempiamo le nostre vite di soddisfazione, gioia, felicità.

E tu? che cosa vorresti lasciare in eredità a questo mondo quando te ne andrai?

Buon sabato, morbido.

BULLISMO: Incontri virtuali per problemi reali

Questa settimana voglio invitarvi a due incontri su una piazza virtuale. Mai avrei pensato nella mia vita che una diretta Facebook sarebbe stata la soluzione per trovare uno spazio e un tempo in cui invitare un relatore e confrontarci su temi attuali, importanti.
Questo non è il tempo dell’incontro in carne e ossa ma può essere l’occasione per riflettere, cambiando prospettiva, su cosa è il bullismo, confrontarci sul tema della violenza, della denigrazione e cercare di comprendere quali azioni come adulti possiamo mettere in campo oggi per trasformare la società di domani.

Cercheremo di farlo insieme ad una pedagogista: Emily Mignanelli che cerca sempre di guardare con occhi nuovi ai fenomeni sociali, senza stigmatizzarsi in teorie e preconcetti.

DOVE: Verrà trasmessa una diretta Facebook sulla pagina dell’Associazione di promozione sociale IL GIRASOLE oppure sulla pagina del Corallo, centro di Pedagogia Sistemica

Il primo appuntamento è ALLE RADICI DEL BULLISMO, rivolto a insegnanti, educatori, baby sitter e tutti coloro che in qualche modo si occupano di educazione.
QUANDO: il 1 dicembre e il 14 dicembre ore 17

Il secondo appuntamento è DOVE IMPARANO A ESSERE BULLI rivolto a genitori, nonni, zii e tutti coloro che sono interessati a dare il loro contributo nell’ambito educativo.
QUANDO: il 9 dicembre e il 16 dicembre ore 21

Sarà possibile intervenire in diretta, fare domande e approfondimenti.

L’educazione è un tema che riguarda tutti, a tutti i livelli. Fare educazione non significa creare uomini obbedienti ma pensare al mondo che vorremmo e iniziare oggi a fare in modo di realizzarlo.

Vi aspetto!

Dove imparano a essere bulli?

E se si imparasse a essere bulli?
Ma da chi? Dove?

Proveremo a riflettere sul tema insieme alla pedagogista Emily Mignanelli

Alle radici del bullismo

Forse la mia visione è utopistica, ma io amo i sognatori, senza di loro non ci sarebbe stato progresso. Credo fermamente che bisogna cambiare punto di vista se vogliamo veramente sostenere lo sviluppo di una società più umana. Credo fortemente che la responsabilità è di ognuno e di ciascuno.
Non possiamo tirarci indietro.
Viviamo in una società. Rendiamola comunità.
Per confrontarci su questi temi abbiamo scelto una pedagogista, le cui parole hanno valore nel presente ma hanno carattere di infinito. Cara Emily Mignanelli non vedo l’ora!