Siamo i NO che diciamo

Ho ricevuto un’educazione per cui dire NO era da egoisti, quindi mi hanno insegnato che era meglio dire di SI, accontentare, anche se poi questo comporta un enorme sforzo personale, un sacrificio. Della serie… prima viene il dovere, poi il piacere.

Crescendo ho imparato che nella vita bisogna vivere anche facendo le cose che ci piacciono, che è importante trasformare il linguaggio e ho iniziato modificando i miei DEVO in VOGLIO.

“Ma non si può fare solo quello che ci piace…nella vita ci sono anche i sacrifici!”

L’avete sentita anche voi questa voce in testa?
Per me è martellante però ho anche imparato a dare spazio all’altra voce… quella che mi dice:
“Cerca di scegliere, di vivere le cose perché lo vuoi e non perché devi, anche ciò che non ti piace”.
Ecco che allora tutto cambia sapore.
Perché la vita è, né bene, né male, essa è, e si manifesta. A noi poi la scelta di quale parole usare per definire ciò che viviamo, quale dialogo per interpretarla; diventa importante dare spazio e accogliere la parte di noi fragile in modo amorevole, che anche se non è felice di ciò che sta vivendo, sceglie di viverlo pienamente.
Con le energie, la voglia, la motivazione di quel momento.
Magari poca, ma il cento per cento di quel poco.

Oggi ragionavo sul fatto che spesso vorremmo che i nostri figli siano “soldatini” pronti ad accettare e a fare ciò che diciamo. La fase in cui si manifestano i NO (dai 18 mesi in poi) la chiamiamo: i terribili due, giusto per farci un’idea di quanto accettiamo il loro diniego.

Nell’ottica di crescere un figlio che diventerà adulto capace di vivere la propria quotidianità, di scegliere per sé ciò che è bene e rifiutare ciò che è male, evitando dunque di seguire il gregge, la mia domanda è: come li stiamo preparando? Stiamo offrendo loro uno spazio in cui dire NO? Accettiamo che possano dire NO? O accettiamo solo quando fanno ciò che diciamo? Ciò che vogliamo? Inoltre, siamo modello di integrità e riusciamo a dire NO a un invito che non ci piace, ad una proposta che non sentiamo nostra? Oppure diciamo SI per non rimanere “fuori dal gruppo”?

Nel pomeriggio un’amica mi ha chiamata e le ho fatto una proposta relativamente alla possibilità di condividere un progetto. Mi ha risposto: “In questo momento non ce la faccio. Ho troppi impegni e, pur credendo nel progetto, non posso partecipare”.
Il suo NO mi è dispiaciuto molto perché avevo in mente una cosa e se gliel’ho proposta è perché ci tenevo a farla con lei, ma il suo NO mi ha dato uno spazio di riflessione in cui fermarmi a mia volta e domandarmi: “È quello che voglio in questo momento?” in più mi ha permesso di sentire la mia amica nella sua essenza più profonda.
E mi sono detta: “Wow!!! Che figata pazzesca! Ma chi l’ha detto che bisogna sempre dire SI a tutto: idee, proposte, cose, parole…io posso dire NO!!” e se ci penso, quando lo dico, non sento un peso ma un profondo senso di libertà.

È davvero necessario dire SI a tutto? Abbiamo bisogno di tutto oppure ci possiamo permettere il lusso di dire NO?

È molto più semplice dire SI che NO, questo lo dobbiamo riconoscere.
Il NO qualche volta va motivato, può essere doloroso nell’accettarlo, ma il NO mi definisce, dona all’altro la chiarezza di chi sono, in questo momento.
..ma la cosa più importante restituisce me stesso a me. Posso riappropriarmi delle mie scelte, del mio tempo, dei miei valori.

Questo è il mio proposito per questa nuova settimana: dare un nome ai SI che dico, pesare il dovere e il piacere, modificare i miei SI in NO, se per me è troppo “faticoso”.
Darmi la possibilità di definirmi e offrire all’altro una versione di me più autentica, più vera.
Voglio dire dei sinceri SI e provare a dire autentici NO, sentendo la vita che scorre in me nel farlo. Non per opposizione all’altro, ma per amore.

Il giorno dopo la festa della mamma.

Non avevo mai fatto la mamma, l’ho imparato con voi.

Non conoscevo la pazienza, voi me l’avete insegnata.

Conoscevo la critica, con voi ho imparato a comprendere.

Conoscevo il giudizio, con voi ho imparato ad accettare.

Vivevo in modo programmato, con voi ho imparato a chiamare l’imprevisto, amico.

Conoscevo l’organizzazione, con voi ho imparato a farlo sulle montagne russe.

Pensavo di conoscere la coerenza, ma ho scoperto che era rigidità.

Conoscevo l’impegno e il sacrificio, con voi ho imparato la dedizione.

Conoscevo la rabbia, e la conosco ancora, ma ho anche imparato a perdonare.

Conoscevo i “nodi al dito”, mi avete insegnato a dimenticare, ché l’amore è più forte.

Pensavo di essere “nata così”, ho scoperto che sono tutt’altro. Un essere in trasformazione ogni giorno.

Non conoscevo l’amore, voi me lo avete dato. E me lo state insegnando.

Pensavo di non avere un cuore, ho scoperto di averne uno così grande, generatore instancabile di amore.

Pensavo che l’attesa fosse un tempo perso, di dolore, ho imparato che è un tempo guadagnato.

Pensavo che il dolore si dovesse fuggire, ho scoperto che è un tempo di grandi insegnamenti e che senza non saremmo niente.

Conoscevo la fuga come mezzo per fuggire, con voi ho imparato a “stare”.

Pensavo che le scomodità fossero seccature, oggi ho imparato a trovare la mia comodità nella scomodità.

L’inquietudine era la mia compagna di viaggio oggi ci siete voi, e ho trovato la pace.

La mia vita prima aveva senso, ma con voi tutto si è amplificato.

Grazie, ogni giorno.

Con amore, L.

ESSERE VISTI, SENTIRSI AMATI

I bambini hanno bisogno di essere guardati, per lungo tempo. Qualcuno mi ha chiesto: “cosa hai provato quando è morta tua moglie?” Ho risposto: “Per me è cambiata la vita”, perché dopo sono sopravvissuto, non mi è interessato granché restare al mondo. E tuttora non mi interessa granché. La cosa più dolorosa è la perdita del testimone. Tu quando sei al mondo hai bisogno di essere guardato da qualcuno. Quante cose fai perché uno ti guarda? Lo sguardo è il primo processo di socializzazione: Il bambino appena comincia ad aprire gli occhi e incontra lo sguardo della mamma, la prima cosa che fa è ridere perché esce dalla solitudine, entra nella socializzazione. Noi viviamo se qualcuno ci guarda, se qualcuno ci fa da testimone, quando non hai più nessun testimone puoi anche avere sei mila persone che ti applaudono, ma non ti importa niente. I bambini allora bisogna guardarli, mentre giocano, mentre guardano un film; e, mentre lo guardi, chiedigli cosa prova, cosa pensa mentre fa la sua cosa, in questo modo non lo lasci alla sua cosa, alla sua solitudine. Guardandolo puoi accorgerti dei suoi progressi, e li riconosci. Questo lo aiuterà a farne altre mille di passi, per il solo fatto di essere gratificato dallo sguardo”. Umberto Galimberti.
È dall’ascolto di queste parole, che esprimono una verità tanto semplice quanto scontata, che nasce la riflessione di questo mese, che è il primo di un nuovo anno. In quest’epoca in cui di domandiamo spesso che effetto avrà sulla vita psichica dei bambini essere circondati da persone a cui è nascosto il sorriso, io rilancio ricordando che abbiamo lo sguardo. 

Quando il nostro sguardo è distratto, manca.
Se è impegnato a osservare lo scorrere di uno schermo inevitabilmente non può testimoniare la vita che si manifesta davanti ai nostro occhi. Se è impegnato a “catturare” un’immagine da inserire in un profilo social, dimentica la sua funzione reale ovvero di riconoscere e rimandare al bambino ciò che sta accadendo.
Allora dopo aver catturato, sarà importante restituire (da 0 a 99 anni): “Vedo che sei impegnato a costruire una torre molto alta”, oppure “vedo che sei riuscito a fare questa cosa molto difficile…” Faccio esempi a caso, ma necessari per comprendere il tipo di feedback di cui ha bisogno il bambino/adolescente che non è il “bravo!” ma è il: “con il mio sguardo ti vedo, per me esisti, riconosco i tuoi cambiamenti, la tua evoluzione, ti sostengo”.

Perché è così importante? Il bambino/l’adolescente nel momento in cui viene guardato, e quello sguardo produce un pensiero nell’adulto che si trasforma in parole, percepisce di esistere. E percepisce che la sua esistenza è vista da qualcuno. E questo, inevitabilmente, permette di sentirsi parte di una relazione, di sentirsi amati. 

Care mamme che “approfittate” del momento in cui allattate per controllare le notifiche sul cellulare, cari genitori che incollate il vostro sguardo sui social in cerca di notifiche (ovvero di essere guardati da qualcuno) e non prestate attenzione al fatto che il vostro bambino ora sa spingersi sull’altalena da solo, cari individui che cenate con il cellulare sul tavolo per controllare se qualcuno vi cerca, cari tutti, riconosciamo che fisicamente siamo con i nostri figli, con i nostri affetti, ma che in realtà il nostro corpo sta dicendo: “sono qui ma vorrei o mi rendo disponibile ad essere altrove con qualcun altro”.

Per crescere, e aggiungerei, per vivere, abbiamo bisogno che l’altro (il genitore, il partner, l’altro in generale) sia nella relazione: quando parliamo abbiamo bisogno di essere ascoltati con gli orecchi, ma anche con il corpo, con gli occhi.
Non possiamo ascoltare se stiamo facendo un’altra cosa.

Quando una persona ha bisogno di parlarci, richiede la nostra attenzione e gli diciamo: “tu intanto parlami, che io ti ascolto” (e intanto lavi i piatti), oppure “tu dimmi, intanto rispondo un attimo a questa persona” stiamo dicendo all’altro: “ti ascolto ma non sei così importante per me da darti uno spazio esclusivo”.

Mi piacerebbe che questo articolo suscitasse in ognuno di noi la volontà di fare un piccolo esercizio: creare uno spazio esclusivo per le relazioni significative. Se siamo a cena, spegniamo le suonerie dei cellulari e dimentichiamoli per mezz’ora in un cassetto. Se un bambino ci sta parlando diamogli tutta la nostra attenzione, il nostro sguardo. Quello sguardo è l’unico strumento che abbiamo per farlo sentire amato, e quella certezza dell’amore lo farà crescere forte e sicuro.